Le storie e i romanzieri

Ci sarà un motivo per cui a tutte le persone piace se non raccontare almeno sentirsi raccontare delle storie. 'Na coincidenza non po' essere...
Io credo che il piacere delle storie (raccontarle o ascoltarle) c'entri qualcosa col fatto che inconsciamente la gente, anche la meno studiata, avverte che un racconto è sempre un'altra vita rispetto alla vita. Una sorta di fuga dalla propria morte carnale, una deviazione temporanea per parole in corso
Ci si rende conto insomma che per svagonare qualche minuto dal binario (morto) della vita temporale (e quindi per smarcarsi dall'evenienza della morte) l'unico modo è posizionarsi buoni e ubbidienti, come cagnolini addestrati, o anche ringhiosi, su un altro piano: il piano delle parole, che sanno stare, se vogliono, oltre la contingenza. Colle parole si può scalpellare a nostro piacimento un'altra realtà, che per forza dribbla la morte, o soffia sopra al suo fiato dietro il nostro collo, per lo meno perché producendo la vita in lingua, ci possiamo smemorare un po' della morte in vita. 


Poi ovviamente ci saranno degli scatti tra persone e persone, dovuto all'istruzione, alla classe sociale, agli interessi ecc ognuno aguzzerà la curiosità in un senso, la scelta delle parole, il ritmo, la battuta, o nell'altro, sfociando nel piccolo pettegolezzo... ma i romanzieri, gli scrittori, gli artisti, rispetto a questo sottobosco nodoso e incontrollabile di parole e storie che è la gente, non fanno altro che i piantoni, o i moralizzatori senza morale, i legislatori dell'eleganza, del gusto, gli artisti sono degli assessori all'urbanistica, al piano regolatore, non fanno altro che discriminare alcuni modi e alcune categorie di storie per ufficializzarne altre, ponendo un tetto tra il sopra e il sotto. Questo è uno dei motivi per cui al potere sta tanto a cuore l'arte. Ed è per questo che l'arte si pone come un dispositivo di potere, ed è importante controllarlo. Perché ha una funzione discriminatoria e regolarizzante. Sfronda (o crea) una forma, e poi questa forma si pone come modello di cielo per tutti. 


D'altronde così, sta tutto in ordine... mbò... 

Commenti

  1. Interessante riflessioni.
    Sì, sicuramente uno dei motivi principali per cui piace raccontare o ascoltare storie è quella di immaginare di poter vivere altre vite. O almeno lo è per me. Il cinema ed i libri li ho sempre vissuti unicamente in questa maniera. Poi se mi fanno anche riflettere ovviamente è il massimo. Tutto il resto, le considerazioni sulla prosa, le innovazioni linguistiche ecc., viene dopo. Ma a volte un racconto è solo un racconto e vale il piacere di ascoltarlo per questo e basta.
    Il secondo punto, beh, sì, certamente il potere ha sempre cercato di usare l'arte (penso alle vere e proprie opere di propaganda, al cinema di regime ecc.). Giusto ieri sera riflettevo su quanto la lingua risenta particolarmente dei condizionamenti socio-politici. Penso ad esempio che se noi abbiamo tanti anglicismi è perché siamo satelliti degli Usa e se determinate professioni non hanno il femminile è perché un tempo esse erano riservate solo agli uomini. Il fatto che il plurale dei maschili e femminili sia sempre declinato al maschile la dice lunga. La lingua del dominante ha la meglio sul dominato (i colonizzatori impongono la propria lingua). I contenuti idem, le storie riflettono i rapporti di potere e ovviamente chi domina detta legge. Penso alla letteratura che per secoli è stata soprattutto maschile e come protagonista aveva l'uomo bianco borghese. Che era la norma. Così la sua maniera di esprimersi. E tutti si conformavano a questo modello.
    La cosa interessante è che però la forma o la lingua non vengono fissate una volta per sempre, prima o poi sfuggono al controllo.

    Forse la domanda giusta è: perché ci stanno così a cuore le regole, i modelli, le norme? Che stiano a cuore al Potere, beh, mi pare ovvio.
    Che poi noto una contraddizione: se le storie servono a tenere lontano il pensiero della morte, tutto ciò che fissa, che normalizza, che regola invece è l'esatto contrario. Nel momento in cui l'arte diventa norma allora esaurisce la sua funzione apotropaica?

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  2. La lingua è un dispositivo di potere non si discute, anche perché senza lingua non esisterebbe nemmeno il pensiero, anzi sono la stessa cosa: ricordo sempre la bella sintesi sulla linguistica che Sciascia, sulla scorta delle grandi lezioni sul linguaggio del novecento, da in Una storia semplice, con una semplicità, appunto, disarmante: "L'italiano non è "l'italiano"... è il ragionare!". Qui misi pure uno spezzone del film ricavato dal libro: http://ilpontelunare.blogspot.it/2011/10/una-storia-semplice.html

    L'arte poi è da tenere sempre sottocontrollo, proprio perché è "colpevole" di giocare troppo col linguaggio e coi linguaggi, e quindi di giocare coi modi del pensare che devono essere strettamente controllati. Ora, fin quando uno scrittore scrive per altri scrittori, il potere ne rimane sollevato... tanto, chi s'o incula?
    il problema è quando uno non scrive solo per gli amici sua...

    Un outsider in democrazia va bene se è outsider per finta, come un Saviano, o un Travaglio che sono formalmente e contenutisticamente statici. emettono enunciati già testati e innocui, ma danno al pubblico la sensazione di avere un'alternativa alla rappresentazione del potere propriamente detto... è un altro modo per raggruppare e tenere buone delle forme molto grezze di dissidenza psicologica... in realtà sono loro a creare la dissidenza, i vari Travaglio Saviano ecc, ma la creano già controllata, già commestibile e immutabile. cioè una trappola per topi...

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    1. Quoto e sottoscrivo ogni singola parola.

      "in realtà sono loro a creare la dissidenza, i vari Travaglio Saviano ecc, ma la creano già controllata, già commestibile e immutabile. cioè una trappola per topi..."

      Già, i vari Travaglio e Saviano sono controllati e controllabili perché comunque nati dentro ad un sistema, pure se poi vogliono prenderne le distanze; il vero outsider invece è colui che è sempre stato fuori dal sistema. Un perdente in poche parole. E, per ricolleggarci al discorso di là, un perdente non prenderà mai nessun premio.
      Io, per dire, il Nobel l'avrei dato volentieri a Philip K. Dick. Ho terminato da poco uno dei pochi romanzi realistici che ha scritto (perché lui ci teneva tanto a diventare uno scrittore mainstream, pensava che la fantascienza fosse un genere limitato) ed è grande letteratura e non mi stupisce che all'epoca, negli anni cinquanta, non gliel'abbiano pubblicato. Perché era un romanzo che guardava quegli anni da una prospettiva inedita e ne vedeva tutto l'orrore, l'inizio della fine. Scusa per l'OT. ;-)

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  3. Non ho commentato a suo tempo, quando l'ho letto, ma m'è tornato in mente perch mi sembra becchi nuovamente dei motivi "di fondo" (orribile orribile nomenclatura!);

    soprattutto come - scatto ragionato suppongo - tu metta in fila due posizioni in qualche modo antitetiche della scrittura: da un lato alleggerimento del vissuto (come Savinio diceva "igiene quotidiana" del tenere un diario), dall'altro riproposizione dei suoi steccati\paletti\ecc. ecc. nell'"e(ste)tica"; cioè: semplificazione del reale e complicazione dell'irreale

    ma se anche una tale ambiguità esistesse (esiste) è davvero imputabile alla scrittura? o invece alla lettura? (e alla fondazione di una cosa come: la letteratura?) Può esistere una letteratura minore? una scrittura minore sì non ho dubbi, la domanda è se possa una letteratura; in fin dei conti è facile erigere barriere sopra qualsiasi terreno anche il più morbido e instabile. Cioè: il gioco della letteratura non è già di per sè tutt'uno all'ingabbiamento di quel mistero (totalmente laico sia chiaro: più Henry James che de Chirico), della radicalità che è un (buon) testo? si può fare arte dell'anti-arte (non è un'opinione ma un dato di fatto...). Sono una gabbia in cerca di un uccello?

    sono troppe domande, nemmeno tutte legate credo, ma qual è il fuoco o i fuochi penso sia chiaro...

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  4. la metto facile, ma è così davvero: se non esistesse una letteratura minore, o la possibilità di trovarla da qualche parte, penso che non avrei dedicato manco mezzo minuto a queste robe...

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  5. è molto giusto metterla facile; tantopiù che lo sproloquio (mio) era partito con un'idea ben diversa rispetto quanto ho scritto: cioè di ragionare attorno il fatto se non sia la costruzione di una trama\la riideazione di un reale altrettanto solido del reale "vero" quanto scatena un meccanismo di potere\di censura e(ste)tica nella scrittura; per quanto sia difficile immaginare leggeremmo qualcosa se un meccanismo di selezione simile non esistesse (cioè: io leggevo anche le etichette dell'acqua minerale da piccolo, ma era più per noia, nonostante si possano immaginare belle novelle anche sulla variazione della quantità di fosfati...)

    tolto questo: boh; cioè: "personalmente" penso di condividere anche, però poi penso a come si conoscono i libri, si stampano, si criticano, si diffondano; concretamente: a come la metamorfosi possa essere un libro da spiaggia e magari fra qualche anno essere un film hollywoodiano (lo so che lo stesso non vale per la muraglia cinese, per dire; però non mi sembra che questo fatto basti come controargomento) e allora la domanda: come si scioglie il nodo? (che per me, penso d0averlo già scritto una scrittura minore può esistere - esiste senza problemi; è il momento in cui su tale scrittura si sedimentano significati, diffondendosi ecc. che mi diventa problematico)


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  6. Prendiamo Poe: i suoi libri, dopo poco meno di due secoli dalla loro composizione, fanno un'anticchia meno effetto sul lettore, ma il suo grande spirito minoritario e guascone è lì, rimane, ed allo stesso modo rimane la sua letteratura minore. Poe una volta ci provò a fare il messianico, spacciando per universali dei principi di poesia e composizione che oggi non userebbero nemmeno i maestri delle scuole di scrittura creativa... Era un atteggiamento che non gli confaceva.
    Di Kafka forse non riusciremo mai noi nati nel Novecento a non sentire il lamento sordo. E forse nemmeno quelli che ancora non nascono.
    Prendiamo D'annunzio. E' un autore che mi interessa poco, ma un pregio gli va riconosciuto, e tutti i poeti dopo di lui ci hanno dovuto fare i conti: la musica e la fame di parole. La sua letteratura è stata tutta massimi, eroismi, ebrezze di un "decadentismo decaduto", di un classicismo insopportabile... qualcuno di senno lo ricorda per i suoi personaggi? per le sue trame? per le sue atmosfere? per i suoi slanci?
    Lo si ricorda per quello che di minore aveva questo autore: la sua musica in lingua di bellezze.
    E la letteratura di Svevo non rimarrà minore per sempre, anche dopo il superamento della figura dell'inetto? Svevo è molto di più dell'inetto.

    Sulle posizione che dicevi antitetiche in letteratura... è difficile spiegarsi. Ma spesso la semplificazione o la codificazione o la in-formalizzazione che provoca la scrittura è essa stessa una forma palliativa. Avere dei paletti formali semplifica i nostri sentimenti, ingabbiandoli. Petrarca, nel trecento, già lo diceva... era contento di poter rinchiudere in sonetto qualcosa che nel suo spirito sembrava un male incontenibile, un cane sciolto.

    Ogni autore quindi è un grado di complessità del pensiero. Nello stesso tempo prestano a tutti delle forme e delle costruzioni, degli stampi, dentro cui è lecito essere ospiti.... c'è chi poi si accontenta di filtrare il reale o l'irreale con quelle lenti, e chi ne usufruisce per un po', nella sua continua ricerca di complessità e (non)spiegazione...
    Ovviamente, nel far questo, si mettono dei paletti, momentanei per alcuni, molto duraturi per altri. Ciò vale per l'autore che scrive i suoi libri e avanza colla sua ricerca formale dal primo all'ultimo, così come vale per i lettori che lo seguono. Se il mio autore di riferimento è Baricco avrò un correlativo culturale di pensiero tot, se ho assimilato Nice, Kafka, Schopenhauer è un altro paio di maniche. Il problema è che ci sono autori (filosofi o letterati) che pur dando dei paletti, lasciano aperto il cancello, lasciano le vie di fuga per superarsi. Ed altri che questo non lo permettono, e costruiscono dei recinti mentali che non prevedono un superamento. Sono queste le forme di pensiero che lo Stato adora. Oggi lo stile giornalistico dominante non fa altro che alzare recinti di questa fatta qui... e con esso molte qualità artistiche che gli presta materia prima e combustibili...

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  7. guarda... è difficile obiettare qualcosa alla tua risposta (non è quello che farò); però non so come spiegarmi: è più una questione di riuscire (o meno) a mantenersi "fedeli" a quanto di insignificante c'è in quel grado di pensiero che dici proprio di ogni autore... e che non è un grado di pensiero (lo diventa solo nella serie(successione)storica); cioè la possibilità di non-sciogliere in significato l'aporia portante di un discorso pari a quello degli autori che citi: scioglimento che già di per sè mi sembra un "addomesticare" qualcosa che forse non lo merita... ma è un (non)pensiero confuso, probbilmente tautologico, che tra l'altro darebbe in una pratica di nonlettura piuttosto che di lettura. ma sì è confuso (e probabilmente ingiusto) perciò perdona il raid, tolto che a livello pratico l'ultima parte del tuo intervento su apertura\chiusura e il ruolo del giornalismo temo sia perfetta

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  8. Forse capisco cosa vuoi dire ma è complesso trovare un tavolo comune.... è difficile perché si tratta di stanze, corridoi dell'intelletto che l'arte riesce a percorrere e che muore nell'attimo stesso in cui viene, appunto, sciolta in una spiegazione, o in un disvelamento qualsiasi.. perché diventa altro. In questo frangente qui, sì, il lettore ha un grado di importanza pari a quello dell'autore, se non superiore o meglio dire incalcolabile.

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  9. Sì, forse dopotutto ci capiamo: l'unica cosa da aggiungere - per capire se davvero un barlume almeno trepassa - è che "sì, il lettore ha un grado di importanza pari a quello dell'autore, se non superiore o meglio dire incalcolabile"; ma allo stesso tempo quel qualcosa del testo di cui parlo è il suo punto più indifferente alla presenza di un lettore (non so nemmeno se sto facendo più senso)

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    1. Capisco benissimo. Quello di cui parli è, all'inizio, il luogo dell'autore, non c'è dubbio, dove l'autore mette e prova tutto il suo piacere, ma può diventare anche il "postribolo" del lettore, laddove il lettore avverte che facendo un saltello c'è posto anche per lui, per il suo gusto (oppure no... ma alla fine sì).

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