Un narratore pianeggiante

C'è una mia lunga battaglietta colla lingua italiana che riguarda i finiti accoppiamenti delle parole. Diciamo che, per ben scrivere, bisogna inghiottire una pastina, tale che un buon tiratore di parole finirà quasi per necessità a mettere una in fila all'altra quasi sempre le stesse identiche ritmiche che, dalla loro, saranno rette da ciuffi e grappoli di parole e sensi similissimi di volta in volta. E' l'arte di fare della letteratura, la cura del testo, le cose, i "che", i punti bla bla.... uno sforzo che si vede. Per questo, lo odio. 


In Celati, che mi scalco da tempo, c'è (o sembra esserci, dissimulato) un gran bel senso di menefreghismo, di irriguardevole disinteresse, in cui, ca va sans dire, si avverte di gran lunga meno il senso della p(r)osa scritta per fare arte e dell'avviluppo nodoso che dopo alcune pagine arriva indigesto, lezioso, stopposo, come una truffa di ridondanze. In Celati, invece, si trova una prosa leggera leggera, che cerca pochissimo l'effetto, anzi lo stile è evitare gli effetti più allettanti, le tentazioni che la lingua dissemina tra le righe non scritte... il discorso di cui sopra; uno scrivere fitto, ma fischiettante, che sa del bambino delle medie, delle superiori, ma scolpito con lama gelida ed affilatissima, comico in quanto disonesto, tremebondo, secco da spaventare i tisici, ostinatamente contro sdrucciolerie e pastoni indigesti della prosa "innovativa". Celati novelliere è un reazionario, la cui lingua però, così avvolta, e spiegata in soffi netti di leggerezza è una delle cose più nuove all'interno del canone del racconto, all'interno dell'interno.  
Celati è uno che fa il suo, stanco morto, senza troppe velleità, troppi preziosi professionismi, anzi uno dei grandi perché dei più consapevoli simulatori, dei più grandi perché concepisce la scrittura come dilettantismo ed i testi come tante delle innumerevoli doppiature ed appendici della persona. 

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