Mio zio scopre la fame che mordeva alla pancia i grandi narratori russi

Mio zio ripeteva che gli avevano messo una multa perché al primo giorno di entrata in vigore della legge sull'obbligo di cascare col casco, di cascarmorto come diceva, lui non aveva il casco, un modello a scodella, avvitato sulla testa. Bello scemo, oggi le fanno le multe! diceva mia zia, se c'è un giorno che ti mettono la multa è oggi! Imbecille! quando vuoi che le fanno dopo oggi? oggi era il tosto! E tu ci sei cascato come un imbecille!
Ma mio zio, vecchio comunista di ferro, non protestava tanto per la multa sbattutagli sulla faccia come una torta di panna, protestava che la vigilessa, più piccola d'anagrafia, gli stesse facendo la paternale dall'alto della sua autorità polizioide. "Non si deve permettere! E glielo ho detto: Non si deve permettere di parlarmi così: io potrei essere suo padre..." e via discorrendo.
Mio zio allora decise che era ora di ritirarsi, come da tempo sognava, in un avello di biblioteca, a leggere qualcosa che lo potesse mettere nelle condizioni di pettinare un libro suo prima o poi. Aveva interrotto una brillante carriera di lettore per darsi alla manodopera di cantiere. Oggi, sotto cassa integrazione per la crisi e prima ancora in mutua per un braccio consumato dall'ostio-porosi e minato d'artrite, sprofondò nell'avello d'una bibliotecuccia del suo piccolo paese. La moglie miagolava in continuazione sulla disparità nord-sud (noi sud).
Lo zio, nelle patrie teche, imparò cos'era un tropo e decise che era ora finalmente di mettersi a tropare davvero.
La trasformazione di mio zio fu alquanto repentina, e sorprendente, da quel momento cominciò a dire quello che gli dicevo qualche mese prima io: che la realtà, quella che tutti dicono la realtà di qua la realtà di là, in realtà non esiste perché ce ne sono troppe in circolazione e meglio che uno se ne fabbrica una sua, come i matti, bella o brutta, no che se la fa fabbricare dai dirigenti della mediaset. Insomma, era finito il tempo in cui io dicevo: "La realtà, zio, non esiste! un conto sono le cose che succedono, un conto le parole che le raccontano" e lui rispondeva sbraitando: "e mò... la realtà non esiste... allora lu poll’ che mi so' magnat’ a pranzo è aria... il pollo che mi sono sbafato a pranzo è ARIA... è ARIA..."....
Ora eravamo, nella sostanza, d'accordo. E lui era pure più contento che non doveva per forza dire tutta la verità che gli era cascata sopra e che s'era dovuto sciroppare a tutti i costi. "Menzogna". Menzogna.

Siccome un periodo di tempo esteso di tanti tanti anni fa, io mi ero ritirato non-mi-ricordo-manco-più-dove perché si sa che si passano dei periodazzi dove uno si barrica con quella malattia lì addosso, nei miei famiglieschi si sparpagliò la voce che io stessi meditando, se non proprio mettendo a opera fatta, un libro intelligente. Quando uscii dallo spiaggiamento, capii che c’era quella attesa perché mia madre disse "sotto chissà che si pensano... sapessero che fai solo sporcizia per la casa..." però mi sentivo lustro di occhi indiscreti, e quando ne incrociavo qualcuno, di occhio, anche al sottecchio, alzavo le spalline, come per dire "eh mbè... modestamente... Dinamo"... o vibrazioni a questa maniera.
Poi la cosa passò, io tornai a fare l'umile in una mensa e tutti i conti tornarono in cassa. Mio zio, però, ora gli tornava quella rotella a girare che io sapessi il fatto suo, cioè lo potessi aiutare a pettinare il suo primo romanzello, e gli girò una mattina che mi chiese consiglio, ma solo – e discretamente – sulla titolazione. Solo su quella. Mi disse: "Dì, ma il titolo no? quello che va sopra sopra… sopra la copertina dico… ssò titolo ha da esse forte o piano?". "zì... piano e forte… pianoforte". "Grazie". Ma ha da essere pure sobrio zì, gli dissi, non metterci la cambiale sopra, né una sevizia linguistica, niente cose di sangue... ‘na cosa semplice ma efficace, come una pillolina, una suppostina nel bucino che entra piano piano piano nel lettore... liscia come l'olio... finché, forte, in su! e vai alla cassa a comprare!

Mio zio disse che lo avrebbe chiamato, il fardello delle sue iniziatiche fatiche, La multa, in onore a una sua cosa che gli era successa un giorno di contravvenzioni (il primo!) per eccesso di guida di scooter senza casco.

Per far capire alla famiglia sana (ovvero intera, non “in salute”) che aveva delle velleità letterarie o nell'artigianato in genere, decise di affittarsi una stanza ammobigliata, sprovvista di frigorifero e moglie, in un residence in Inghilterra, sul mare oceano, davanti al mare oceano, ma dalla parte che punta secco verso l'America.
Da lì, non più sotto mutua né in cassa integrazione, ma direttamente dimissionario con un braccio penzoloni e l’altro intento alle grandi battaglie della letteratura, iniziò a pettinare la sua bambolina di carta finché oh oh forse uscì una cosa presentabile.
Delle volte mi chiamava e mi diceva "tutti dicono che uno può scrivere anche al gabinetto, ed è vero, o all'ufficio anagrafe, ed è vero, però io dovevo venire qua a pettinare, sennò mi escono tutte le frasi storte" io gli dicevo che aveva ragionissima, che la gente era troppo sempliciotta e paesana, che doveva capire, ognuno scrive dove gli viene, come quando si fanno all'amore o si deve pisciare.

Lo zio poi mi disse che doveva andare via, fuori d’Italia, per fare le sue esperienze ancora, e poter così mettere bene in riga le parole sue, ma solo sue, le parole, che qua in Italia diceva che non poteva fare più: l’Italia era diventata troppo abitudinaria nella sua vita e così andando fuori da questo paese, emigrando, come fece già una volta da giovane, pensava sarebbero venute con lui solo le parole veramente sue, che si sarebbero staccate dalla sua carne italica tutte le parole inutili e in necessarie e false e frastornanti, e sarebbero rimaste solo quelle più autentiche e idiolettiche.

Penso che mio zio stia ormai in fase avanzata colla stesura, un odore di fumo di pipa pervade le nostre telefonate super-inter-urbane, dovrebbe aver esaurito almeno tre pacchi di carta risma semplice (con tanto di schizzi e disegnini sul manoscritto, come si usa da sempre), e si avvia a una fase "intermedia", dice, della sua cornucopica stilizzazione della realtà sua.
Da ragazzo, si lamenta la moglie, scriveva poesie come Nazim Hikmet, meno turche però, più terra terra, ma almeno lei lo capiva e se ne innamorava. Oggi scrive di tropi, focalizzazioni interne e rivelazioni diegetiche e, secondo mia zia, non lo capisce più nessuno. Solo quelli come lui lo capisciano, quelli come è diventato lui.
Ma secondo me, non è vero... ché l'episodio di lui alla stazione di Amburgo che perde l'orologio della cresima e ne sviene e gli rubano pure quello della comunione fa schiattare dalle risate.. per non parlare dell’episodio dell’adescatore di avventure che lo voleva caricare e portare a casa sua per sfogare le sue voglie.

Ps: ovviamente mio zio cerca editori di buona visibilità, (ma li cerca da anni e anni ormai, da quando è tornato dall'Inghilterra dove è emigrato per scrivere romanzi); prego chi di dovere di contattarmi nel caso di interesse, previo consenso dello zio, al solito indirizzo di posta elettronica. Grazie. Mio zio, preciso, non produce tesi e testi beckettiani. Solo farina del suo sacco.



Commenti

  1. Sarebbe bello leggere di più di questo zio, un personaggio di cui certamente innamorarsi...

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    1. de spin, ti ringrazio dell'apprezzamento.
      se ti dico un segreto lo tieni per te o lo dici in giro? se posso fidarmi, ti confido, sempre alla segreta, che gli sto dando corda, allo ziaccio, sperando di contro che anche lui continui a darne a me. coi parenti... lo sai... c'è poco da stare tranquilli, io poi sono monicelliano e non vorrei saltar per l'aria.

      ciao de spin, e ancora grazie (vedi che mi serve pure a questo un blogghe, a palpare il pubblico... se non c'è mercato, mi dirotto su un altro soggetto... capisciamme)

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