Orazio non l'ha mai fatto... (né detto)

Dinamo partecipa ad una serata mondana da una postazione privilegiata

Qualche tempo fa, fui inserito, come indipendente, in una lista di invitati per una festa di compleanno di una signora di anni sessanta e rotti di mia conoscenza, e dato l'invito, dovetti, ob torto collo, prendere parte alla premiazione... come la chiamo io, perché trovo fuori luogo (e fuori tempo) festeggiare i compleanni.
La signora, contro le mie aspettative ed in barba a ogni registro estetico, volle ringiovanire per la serata... e per far questo, oltre a vestirsi da ape maja, aveva assoldato un dj moderno, che a me sembrava più un mercenario di musiche per la verità, che suonava appartato sotto un grande olmo del giardino (la famiglia della sessantenne e passa è facoltosa - ed ha anche una cappella dove dicono pure le messe, se gli gira). 

Desideravo ubriacarmi, ma non ci riuscivo, sicuramente perché ci provavo male, ed ero troppo pensieroso - nel frattempo scrutavo l'orologio per capire quale giro di lancette fosse il più adatto per battere indisturbato la ritirata.
Ma era troppo presto... gli era presto diciamo come, in proporzione, se fossero state le sette del mattino e uno che è affamato dovesse resistere fino a mezzogiorno per mangiare qualcosa.  
Dunque mi misi all'ascolto di quella perniciosissima musica che usciva a fiotti da casse nere, alte suppergiù come un nano. 
Il dj quella sera mi fece capire una cosa che non sarei mai riuscito a capire da solo.
In un primo tempo, il dj fece andare solo musica "attuale" come disse una volta un mio amico, cioè commerciale e da discoteca. 
In un secondo tempo, dopo il taglio della torta, la figlia della festeggiata, (donna di grosso potere che per altro anni fa mi prese per la cravatta tirandomi a sé come fossi l'ultimo dei gigolo a buon mercato facendomi pensare m'avrebbe baciato con foga, invece era uno scherzo... rideva…) questa donna disse "vabbene ma ora mamma vorrai sentire le canzoni di quando eri una giovinetta tu..."... e il dj a comando cambiò registro, intavolò quella musica lì, anni sessanta-settanta e che ne so che altro. 

Non sto qui a dire quale musica sia migliore, perché è un concorso del cazzo, ma una cosa mi arrivava lampante alle orecchie: la musica di oggi, quella disco, house, la musica leggera, le canzoncine commerciali, si proiettano, anche se scioccamente, sopra al momento, cioè a consumare l'attimo che fugge, come dicono gli americani (perché il
 carpe diem oraziano è un'altra cosa da quel dannato filmaccio sui poeti estinti, e dalla lettura che gli abbiamo dato noi moderni), è una musica per fare lì ora e subito senza esitare. Una musica che esorta il momento.
Le canzoni degli anni della signora andante invece sono tutte fatte sull'impronta della melanconia, dell'estate che è passata, del vecchio amore abbandonato... sono canzoni da groppo al cuore. Perlustrano insomma quartieri tra i più scuoranti dei nostri ricordi, tanto che uno si scuora anche se quei ricordi non li ha mai né avuti, né prima d'ora, ricordati.

Niente di che. Solo questo. Mica ne voglio trarre una morale per la vita o fare la nostalgia. Ma ci tengo a precisare che
 il carpe diem vuol dire, in ultima analisi, che non c'è da strapparsi la pelle colle unghie sul futuro, e non c'è soprattutto da fare i difficili, che bisogna aver piacere d'essere vivi, (non soltanto di ammattire con vino e pasticche), e anche accontentarsi di quello che gli dei ti hanno già dato... è pure un freno, voglio dire, alla brama. E' una vita di positività drammatica, di gioia catastrofica, tutta girata al presente, di contemplazione del presente, quella di cui scrive Orazio. Niente più di questo, una cosa semplice e molto bella...  








  







Commenti

  1. posso trascinare oltre l'analogia? - anche in maniera un po' stupidina, pretenziosa forse - le musiche lagnose passate stanno alla Res amissa di Caproni come le migliori dell'house (pure detto da me che quella musica non garbo troppo) - non del pop o della musica leggera che hanno riferimento in un'altra estetica, più semplice(?) - stanno agli ultimi di Beckett

    ...non troppa gioia!, anche se forse l'house in questo senso è più "onesta"... non so, la butto lì

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  2. cos'è la vita senza l'amore...

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  3. @AA

    Ti faccio sentire meno solo, una volta pure io avevo accostato l'house a Beckett. Ma m'era venuta in opposizione a Montale.
    E' un discorso tremendo... :)

    @Nisba
    Carpe diem

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  4. in opposizione a Montale? spiega su su... non so perchè ma così a pelle io direi che il vecchio(!) Montale sarebbe stata una delle cose che avrebbe potuto andar bene il motto chi disprezza compra, però forse gli parlo alle spalle :P

    @Nisba: un plauso per il nick!

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  5. Dai che Montale è stato un grande poeta (non grande quanto Campana, ma grande), ha scritto alcune bellissime poesie. Non era Eliot, e nemmeno D'Annunzio (poeta enorme), o Pound, però trovo che non si debba per forza relegarlo in una esperienza scolastica, per quanto alcuni lo dipingano, forse a ragione, come un poeta fin troppo ufficiale, un chierico della letteratura.
    Non dimenticare che ebbe un ruolo notevole nella diffusione in Italia dell'ancora più grande Svevo. Ed ha scritto belle e intelligenti pagine di critica letteraria. Pare fosse anche un grande intenditore di canto lirico, esso lui baritono in gioventù...

    L'associazione mi venne leggendo il suo discorso alla corte di Svezia dove parlò dei giovani che si rinchiudevano dentro delle stanze a sentire la musica ad altissimo volume. La sua descrizione mi aveva messo in una temperie beckettiana.... ma da Beckett facile, la incomunicabilità, la solitudine schiacciata, l'alzheimer... anche se era chiaro che Montale parlasse di valori in perdita.

    Caproni è più calzante in effetti, per la malinconia, però ci sono Ossi di seppia e Occasioni e Bufere che sono tutte intessute di questo sentimento... pensa alla Casa dei doganieri

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  6. no, no figurati: non ci siamo capiti :P al contrario io credo che dietro il suo falsetto da perdita dei valori avrebbe potuto accettare l'estetica dell'house come accettava (di certo) il facile beckett che tu dici: col segno meno davanti ma sentendone la giustezza, forse la tentazione (l'ironia da satura in poi... ha di resa, è la commedia che segue la tragedia e non la smentisce 'nsomma)

    ahah, trovamelo un poeta senza malinconia! :P mmm... la sola differenza, ma schiacciata sul presente è che il male esistenziale di Montale per me si sfoga tutto nella presenza concreta che si fa tramite per l'emergenza di un vuoto essenziale (spesso un mattino andando, ma anche quel che tu citi... probabilmente la sua famosa poetica oggettuale), Caproni mi sembra sia ulteriore nella perdita o ne abbia una diversa percezione: la res amissa è tale quasi sostanzialmente, tanto che cosa sia se non una res, la res più generica...

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  7. Ce ne sono invece, di non melanconici, e non melodici, diciamo.
    Bisogna però andar fuori dalla poesia italiana.
    Credo che i poeti italiani siano tutti votati alla nostalgia perché 1 sono tutti reazionari, 2 perché a una lingua poetica istituita nel trecento e calcificata nei secoli gli viene facile ispirare arie revansciste e nostalgiche... temo anzi che dietro il conservatorismo politico-letterario della maggior parte dei nostri scrittori e poeti ci sia la lingua accademica, la lingua accademica della letteratura. Mosche bianche ci sono, ovviamente, anche in Italia, ma sono quasi tutti conservativi. Credo questo fenomeno così diffuso abbia radici più nella linguistica che nella psicologia/biografia dei singoli.
    In Italia, come in nessun altro paese forse, la letteratura ha subito così tanto controllo dall'alto. Con questo non voglio dire che i francesi siano stati poco rigorosi, ma per motivi storici ecc, il loro rigore ha permesso la canonizzazione di forme letterarie e linguistiche diversificate. In Italia questo è successo molto molto meno.

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  8. mmm... continuo ad avere il dubbio che siamo inceppati in qualche secca semantica, sia da tira' i remi in barca :P nel senso che a melanconici probabilmente do un'accezione molto larga che non mi si lega per forza nè con melodici nè con malinconici: ci ricadono però dentro: il magone, lo spleen, la saudade, la melancholia ecc. che non sono tutti per forza revanscisti; diciamo che me li accomuna la accomuna il nodo romantico (compresi quelli che un po' il nodo romantico ha tradito) :P

    ...comunque resto in attesa del tuo post sulla lingua quando prima o poi!
    (ovviamente era un'iperbole: non è che ora sostenga tutta la poesia debba essere romantica, preromantica, passata per il romanticismo!)

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  9. Pure io parlo in generale...
    volevo dare al discorso una viratina linguistica, perché è nella lingua che uno trova poi i concetti... e la nostalgia, la malinconia e consimilerie, sono degli archetipi tematici della poesia, lo sai... è difficile "poetarli" diversamente se hai una lingua ferma da secoli.

    Il post mi costa troppa fatica. E' più facile che lo centellini a gocce nei commenti...

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  10. ...la fatica è sempre un buon movente!

    mmm...ma non so, io non sono sempre così convinto che la lingua venga prima, quanto che siano sistemi in parallelo, che sconfinano... dopodichè, essendo vagamente metereopatico, quando la giornata è bigia com'è oggi sono più pronto a 'bbandonare il primato della lingua sui concetti per quello dell'umore (bile nera e flemma nello specifico :P )

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  11. Amico caro, è troppo facile dire che sono due sistemi in parallelo:)
    E' vero, sono due/tre (ci sono anche le forme stilistiche, i generi, le storie) sistemi in parallelo, possono esserlo, non lo metto in dubbio, ma questo succede poco frequentemente.
    O uno ha una lingua e da quella prende le idee che ne vengono, oppure uno ha delle idee e si cerca le forme e la lingua migliore per dirle.
    Solo a processo creativo e stilistico avvenuto i due livelli si toccano e uno fa lingua e idee scrivendo.

    Prendiamo l'esempio - genericamente :) - del Gruppo '63. Al di là dei percorsi che hanno preso singolarmente, la maggior parte della neo-avanguardia si è fatta "mantenere" letterariamente da Gadda. E' nel modello stilistico e formale e linguistico aperto da Gadda che potevano far parlare le loro idee, che erano idee di rottura (per alcuni), dove entrava il marxismo, la psicanalisi, la frammentazione del testo, l'ammazzamento del romanzo perché borghese...

    Solo coll'allargamento dei codici, colla loro mistura, è stato possibile il postmodernismo. Il postmodernismo (erede delle grandi rivoluzioni d'inizio secolo) è un luogo della letteratura dove se tu sai farlo puoi metterci quello che vuoi, puoi fregare dal cinema dalla tv dal giornalismo...

    Io credo che le idee delle volte possano partorire anche le forme adeguate a farle uscire e altre volte trovano da sé addirittura una lingua per essere dette; in altri casi, è la lingua che partorisce le idee. La lingua di Céline per es non poteva che partorire idee politicamente populiste. E la lingua di Sciascia il contrario, perché la lingua di Sciascia è una lingua per narrare ragionando.

    Più chiaro di così ho enormi difficoltà...

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  12. no, ma è chiarissimo... la distanza probabilmente sta nel fatto che quel per te "è rarissimo" a me non appaia così raro: cioè mi sembra anzi che, messo da parte il caso di d'annunzio, gli altri poeti del nostro novecento (quelli che ancora ci arrivano, sia pure per tramite scolastico nel caso) appartengano più o meno tutti alla schiera dei pensati\pensanti: da questo punto di vista mi sembra liquidatorio vedere il "freno" accademico che tu dici come dipendente da un problema principalmente linguistico: che non vuol dire non ci sia - anzi sicuramente c'è... quello che non mi torna tanto così a pelle è il fatto che mi sembra tu lo lasci agire quasi non filtrato, io vedo più contrattazioni; una differenza di peso in somma(!)

    ma non è detto non dipenda anche semplicemente dalle diverse letture fatte e quanto si è disposti a concedere... l'alternativa, credo, sarebbe lottarci caso per caso :P (come fai per Sciascia e Celine)

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  13. Dinamo, questa osservazione qua? " La lingua di Céline per es non poteva che partorire idee politicamente populiste ".

    LM

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  14. @Anonimo Allegorico

    "quello che non mi torna tanto così a pelle è il fatto che mi sembra tu lo lasci agire quasi non filtrato, io vedo più contrattazioni; una differenza di peso in somma(!)"

    Hai ragione su questo punto. Ci sono delle trattative tra autori e lingua accademica, ma alla lunga, se non cambi lingua, o non ti inventi un formalismo stilistico che la sovrasta, la lingua accademica ti fotte. Non c'è cazzi.
    Certo abbiamo avuto Ariosto. Ma con Ariosto la lingua riprende vita, c'è dentro una sonorità popolaresca, Ariosto sembra uscito da un verso di Lorenzo il Magnifico (per rimanere all'oraziano)... Ariosto rompe il giocattolo accademico. E rompe pure la storia dei generi. Manda il canone a farsi benedire... e col canone la lingua che trasportava.


    @Larry

    E' un'impressione. Credo che l'argot come lingua dell'odio, perché lingua degli oppressi, contiene dentro una carica di violenza pari alla rabbia di chi la parla. L'argot è una lingua che prevede un nemico, uno sfogo, uno sfiatatoio verboso. Non è la lingua degli illuministi (ecco perché mutatis mi era venuto da contrapporre Sciascia che media tra basso e letteratura coll'illuminismo), è una lingua di grande ricchezza espressiva ma che si ribella sia alla prosa borghese romanzesca classica, sia a un ragionare sulla pagina. E' una lingua che si cerca continuamente dei bersagli... è sarcasmo puro, è ghigno.... è pura disillusione violenta. La gente che la parla non crede né al progresso, né alla chiesa, né alla politica, né alla ragione, né a Dio... ma è una lingua piena di Vita. Céline è disposto a perdere tutto, progresso, scienza, chiesa, politica, ragione, Dio (Céline non era ateo), pur di travasare la Vita che c'era nell'argot in letteratura. Ma è chiaro che una lingua così, violenta e qualunquista, anti-razionale e anti-borghese, è più politicamente vicina a idee populiste che altro... è una lingua debole da quel punto di vista, perché pronta a scatenarsi ad ogni minima mossa... è debole sul versante del pensiero.

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  15. aspetta... se spazzi in tutta la nostra letteraria... il mio discorso restava ancorato al Novecento: è il secolo scorso che mi da problemi, che mi sento ancora sul groppo! Se nel discorso iniziamo a tirare in mezzo Ariosto etc. allora cambia, sono pronto a concederti le armi: nel senso che credo il problema della lingua si ponesse in maniera molto diversa, entro canonizzazioni e ragioni poetiche che non sono più le nostre... parlando di contrattazioni io pensavo in un'ottica appunto novecentesca: da dopo (o dentro) la morte dell'arte(!)

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  16. @mmm

    ***

    @AA

    Mmmm... nel Novecento le cose si pongono in maniera diversa. E' difficile farne un punto della situazione generico come si fa sui blog come questo.
    Secondo me, per quanto riguarda la lingua letteraria, nel Novecento (e a fine Ottocento), uno dei registri più importanti è stato quello del giornalismo.
    E' stato un fenomeno abbastanza rivoluzionario, perché dopo le prime fasi, e con tutti i distinguo e gli approfondimenti del caso e giudizi a latere, il registro giornalistico ha permesso a chi scriveva di raggiungere un numero di lettori superiore in numeri rispetto a quello del pubblico dei libri.
    Tra un po' nessuno ricorderà più Hemingway, penso, ma questo signore ha fatto scuola in letteratura, non in giornalismo. L'hanno seguito sì tutti i non-fiction novelist ma pure buona parte della letteratura americana... Più in generale, anche Joyce, nell'Ulisse, fa i conti colla scrittura giornalistica, tanto da dedicargli se non ricordo male un capitolo... Difficile che uno scrittore nel Novecento non se la sia vista colla prosa da giornale. Pasolini, Moravia, Gadda, Parise, Sciascia ecc...
    Voglio dire che il giornalismo ha mostrato alla letteratura che ci si poteva avvicinare di più alla gente, e ai guadagni, costruendo degli enunciati più semplici, anche più "alimentari"... con una lingua più comprensibile, più masticabile e "masticata" da tutti. Ed in generale la lingua dei media dominanti ormai è quasi vista come una pietra di paragone per misurare degli enunciati... o se si vuole chiedere attenzione.
    Oggi, senza scandalo, la lingua letteraria s'è praticamente parificata alla lingua giornalistica.
    Il guaio è che una mano frega l'altra e tutt'e due fregano il lettore.
    Io sono dell'avviso che uno scrittore bravo debba avere una lingua che non sia quella dei giornali, ma nello stesso tempo non deve essere una lingua per marziani, ma che includa. E soprattutto deve lavorare sulle forme artistiche. Lo dico perché se letteratura e giornali parlano la stessa lingua, e hanno forme simili, allora la "gara" rimane nella produzione dei contenuti... e i contenuti che puoi cavare dalla lingua dei giornali sono quelli che sono (anche se qui la partita è in divenire).

    Lo so, divago... mi svolazza il cervello, che ci posso fare? Comunque sono in tema, credo.

    RispondiElimina
  17. ma dobbiamo peeoccuparci di rimanere in tema? ìppunto che sono i blog generalisti ecc.; comunque per quanto riguarda l'Ulisse sì c'è anche un capitoletto dedicato alla scrittura giornalistica, anche se mi è difficile pensare abbia altra funzione rispetto quella di registro che hanno la maggior parte degli usati...

    non so bene come risponderti perchè io stavo seguendo tutt'altra linea di ragionamento, pensando al Novecento, nel senso che lo consideravo come il secolo in cui il letterativo doppia il proprio mestiere: nel senso che la letteratura si fa anche critica e pensiero (nel senso che viene riconosciuta come portatrice di un senso proprio, di una voce che merita attenzione all'interno del Concerto delle Menti) e quindi smette almeno un po' il flirt col bello, la bella prosa, i decadentismi annessi... nel senso che restano possibilità all'interno di un territorio ormai esploso ma non sono più la chiave di volta dell'edificio...

    forse ci ritroviamo qui col tuo discorso riguardo il giornalismo: che questo doppiare ecc. per me - nella mia costruzione mentale supportata da scarsissimi fatti, nzi sicuramente di parte! - è esattamente il punto in cui la letteratura si libera dalla retorica, ma non in senso negativo, quanto che scopre le possibilità dell'aniconico, cioè inizia a slegare il nesso tra immagine e pensiero: che è quello che la retorica stringeva con le sue figure e in maniera un po' diversa anche il romanticismo e poi i simbolismi portavano all'estremo...

    Dialogo dei massimi sistemi come si dice! :P - dico che qua mi si rintreccia il tuo discorso del giornalismo, perchè se il mio costrutto fosse vero (chiaramente io credo che almeno in parte lo sia, sia una chiave di lettura leggitima) allora è esattamente il dissociarsi tra immagine e pensiero che confonde le acque e lascia spazio a nuovi modi in cui gestire entrambi; mentre alla letteratura resta un po' il compito di occupare questo spazio morto che era un tempo quello della metafora (come figura di pensiero per eccellenza...)

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