Non siamo niente sopra a sta terra




Delle volte mentre parliamo o scriviamo commettiamo dei gravi delitti di presunzione e non ce ne rendiamo nemmeno conto. 
Per esempio stiamo facendo degli scherzi, scherzi perfino innocenti, come tirare qualche sassata con la fionda, e diciamo che scherziamo con il fuoco. Oppure abbiamo fatto un reatuccio da nulla come fare lo scavalco in un orto e aver rubato qualche nespola o scaricato illegalmente dei libri da sopra a internet e diciamo che ci verranno a prendere le guardie... che ci porteranno in caserma.
Ma vi pare?
Vi pare che basti così poco per giocare con il fuoco o che le guardie si scomodino per voi, che vi vengano a prendere addirittura a casa?
Pazientate un attimo. 
Siate buoni con voi e con chi vi legge (prima con voi).

Ciò dipende dal fatto che sotto sotto sentiamo come importante ciò che ci accade attorno, che noi facciamo accadere o di cui siamo protagonisti o comprimari. 
Mi piacerebbe sentir dire o sentirmi dire che siamo delle sciocchezze, che ciò che facciamo ha un significato piccolo che se lo porta il vento; mi piacerebbe sentire gli scrittori o le persone parlare di sé stessi in modo minuscolo un po' come quando dopo un funerale si parla del morto e della morte, che c'è sempre qualcuno che per chiudere l'increscioso e labirintico discorso dice ''Non siamo niente sopra a sta terra". E tutti sono d'accordo e non se ne parla più. 
(Un'altra bella frase se l'era inventata mia nonna poetessa che quando vedeva la piccolezza di noi umani diceva tra sé e sé ma guardando verso l'alto, come guardando verso le divinità, il fato e verso la grande poesia immortale, diceva "Ma dove siamo scritti?"). 
Certo, mi rendo conto che c'è chi esagera anche nell'annullarsi. Perché strettamente vicino al "Non siamo niente" c'è il "Non valiamo niente" e quel "Non valiamo niente" non è mica sempre vero e non è mai vero se prende valore sociale, per cui i campesini i cafoni i tamarri non valgono niente perché non hanno niente mentre chi ha qualcosa vale un po' meno niente proprio in virtù di questo qualcosa che ha in più per cui vale meno niente ecc ecc che mò mi ingrippo pure io.

Perciò bisogna stare con gli occhi aperti.
E la bocca più chiusa che si può.  
Una cosa che ho notato io, ad esempio, venendo dalla campagna, è che in campagna si parla poco. La gente di campagna non parla volentieri. Se parla... se per qualche motivo è condotta a parlare... allora balla e si butta di solito nel ritmo della saggezza o in quello - dipende dai temperamenti - dell'umorismo cinico agricolo che raccomando a tutti perché fa ridere e fa ragionare (un po' come tutti gli umorismi fatti per bene). Ma i campagnoli non stanno mai là serate intere a dire quanto stanno male o quanto stanno bene. Non parlano mai di sentimenti.  
Negli anni a seguire, uscendo dalla campagna, parlando con quelli del paese prima e della città dopo, mi sono accorto che loro invece, i paesani e i cittadini dico, parlano sempre volentieri. Loro sì. E c'è da capirli: insieme fanno numero e poi hanno la piazza, il bar, le vie, il corso, la casa arredata bene. Hanno le poltrone per le parole. E allora che devono fare? parlano. E dai e dai, parla oggi parla domani, le cose da dire finiscono. Perciò si trovano sempre a parlare di quello che li riguarda davvicino e daddentro. E tagliuzzano, sminuzzano, decantano. Per questioni culinarie, è chiaro: devono allungare il brodo. Ed anche i genitori di quelli del paese prima e della città dopo parlano sempre dei figli, mio figlio qua mio figlio di là e hanno tante storie sui figli che anche se te le hanno già raccontate e a te non interessano, te le raccontano di nuovo. Il figlio che parte militare, il figlio all'asilo, il figlio all'ospedale, il figlio alla prima comunione, il figlio che lavora e guadagna. 
Embè?
La cosa positiva è che tu che vieni dalla campagna e di te parli poco (ma magari poi ti tradisci, ti dai arie di città, e come il sottoscritto scrivi molto) impari ad ascoltare, ché, ascoltate una volta a me, tra parlare e ascoltare, sempre meglio ascoltare. Secondo me. 


Quando ho esposto questa teoria nella palestra per scrittori l'ho corredata di un ricordo personale, una storia classica agreste che magari manco m'è successa veramente. Ho fatto un po' lo scrittore di città, ma tenevo in serbo una morale. Che segue. Come quando parlano in campagna (ché va bene tutto però pure loro che stanno sempre zitti e c'hanno l'aria della saggezza attaccata addosso e le morali e i proverbi a mazzi un po' rompono il cazzo). 
Ad ogni modo questa è la mia storia classica agreste. Ero piccoletto allora, facevo al massimo la quarta o quinta elementare. Un giorno, assieme a qualche bravo compare dei tempi andati, feci lo scavalco di un orto di un contadino che conoscevo di vista. Trovammo un albero ricco di nespole e più per voglia d'avventure che di golerie (ché già allora v'erano merendine e dolcezze industriali portentose) ci mangiammo tante di quelle nespole da sentirci male. Dopo un po' che si banchettava uscì il contadino, tipo burbero di suo e naturalmente di poche parole, tirò fuori un fucile e più per spaventarci credo oggi che per davvero emise due tre colpi in aria, urlando di andarcene, che ci aveva riconosciuti, che avrebbe chiamato le guardie e che in serata saremmo stati tutti belli in caserma. 
Scappammo come se ci avesse rincorso un pastore abruzzese, riscavalcammo la cancellata e facemmo perdere, si fa per dire, le nostre tracce. 
Per tutta la sera, durante la cena e oltre, non dissi una parola. Temevo da un momento all'altro la scampanellata dei carabinieri. Fino dentro le tre di notte, che sonno lo pigliai solo all'alba, tremai di quella paura, per non dire forse ebrezza della clandestinità. Ma nulla. Le guardie non vennero. Accidenti a lui. Né quel giorno né quelli appresso. Così come non vengono oggi che scarico come un contrabbandiere i libri pirateschi da sopra a internet. 
Capirà il lettore che gran delusione che ebbi. 
L'unico che si fece sentire fu il signor babbo che qualche giorno dopo la nespolata mi disse Le nespole se le vuoi stanno giù all'orto... E mentre mi passò vicino aprì la mano, e ne fece rotolare quattro sul tavolo dove stavo facendo colazione. 
Hai capito? mi disse.
Ho capito, gli dissi. 

Tutto questo racconto, dissi agli scrittori palestrati, per farvi capire che quando scriviamo dobbiamo scrivere da campagnoli o comunque anche se siamo di città, senza voler fare discriminazioni, dobbiamo renderci conto che non siamo il centro del mondo solo perché in quel momento là siamo noi a scrivere e non gli altri a scrivere noi o a scrivere loro; ci dobbiamo ricordare che anche se quello che ci sta succedendo nella fiction ci sembra chissà che e per noi magari è davvero chissà che, ed anche se magari la gente la fanno parlare in pochi nella letteratura, gli scrittori importanti dico, mbè, ugualmente, non siamo granché lo stesso sopra a sta terra, a maggior ragione quando parrebbe che siamo noi a inventarci una terra, seppur letteraria, o un campo, un orto, di nespole o di limoni (oddio i limoni letterari!). 
Bisogna essere lievi. 
Questa è la verità (!).
E dopo un po', quando si è detto quello che si doveva dire, mollare la presa. Ché tanto chi vuol capire capisce. Gli altri da mò che si rompono. 

Alla fine della seduta mi hanno tutti subissato di domande. Uno che mi subissava proprio era lo scrittore sottoproletario Riccardo che era stato in prigione per qualche tempo proprio a causa di un furto di macchina e che non se lo aspettava affatto di essere messo in manette per questo. Io da inguaribile curiosone della vita sbandata ho subito chiesto delucidazioni su questo fatto e ne è nata un'altra discussione (in palestra - vale che ve lo dica già da adesso - delle volte sembra di stare all'asilo).
Dopo le domande e le controdomande, un po' tutti si sono allineati a dire che in effetti nel caso di Riccardo le forze dell'ordine hanno avuto troppo zelo, giacché essendo in Italia rubare una macchina non è poi un reato così grave.

Ho annuito, perché avevano capito bene la lezione del giorno. 
Riccardo voleva dire ancora qualcosa ma eravamo tutti d'accordo. Ho spento la luce e siamo usciti fuori. 
Era davvero tardissimo.
All'aperto, nello spiazzo fuori dalla palestra scrittorea, Riccardo è ripartito ancora incredulo sulla sua Mercedes grigia tutta luccicante sotto le stelle della notte.
Io mi sono cacciato il cappellino in testa e ho pensato che è proprio vero che non siamo niente sopra a sta terra.  

fine





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