Il frizzico dello zio scrittore



Lo zio indossava una cosa molto demodé, cioè un pastrano mezzo di pelle, che pelle non era, ma sembrava di plastica, plastificato marron, e mezzo di lana bianca dentro, l'imbottitura, tutto di colore marron dicevo che ci doveva fare un caldo lì dentro a quel giubbottone che pure stando nel gelo ci si sentiva bruciare; e lui che non veniva a Milano si può dire da una vita, mi faceva una tenerezza immensa che avesse ricacciato dall'armadio il giubbotto che portava quando stava a lavorare ad Amburgo, lui così scuro di carnagione, sempre con quella risata da negraccio, ad Amburgo... una cosa che non riesco ad immaginarmela, ché mi sembrava un film. Ma era una storia vera. 
A Milano, lui mio padre mia zia i miei fratelli e mia cugina la zittella erano venuti per qualche giorno e se ne andavano a zonzo per passare il tempo vacanziero. Ora io non c'ero, avevo momentaneamente da badare ad alcuni fatterelli miei privati per cui m’ero inerpicato apposta a Milano, ma mi hanno raccontato che durante questa gita mio padre e mio zio con dietro quella corte parevano Totò e Peppino nel film della Malafemmina, tanto stavano stonati e fuori strada in un contesto così urbano. Sul metrò, si racconta, parlavano fortissimo, ostentando fino all'inverosimile, si può dire, la vocazione al dialettico; la cosa li faceva sentire evidentemente molto fregnoni, con mia sorella che è sempre stata un po' scorbutica e perfezionista la quale si schermiva di quella sua compagnia di voci dove era finita e scantonava botta a botta, sentendosi pure un po’ superiore alla sua razza famigliare e dando a vedere ai milanesi che lei quella gente non la conosceva. Pure mia zia che di solito aveva maniere più cittadine, essendo ella nata nelle Svizzere ma da genitori dell’entrostato teramano, adesso, nel frangente attuale metropolitano lumbard e tra le guglie del Duomo e le cravatte e le giacche e gli aperitivi felici, chissà perché le venne come un colpo antropologico di manifestare da che rango provenisse e diede fondo al suo vociare più chiaro, netto e sudista, e non ci furono cristi a farla ritornare alla sua pur sempre adolescenza capitolina delle Svizzere. 
Ad un certo punto mi chiamarono al cellulare. Sembrava una colonia estiva di bambini che li avevano portati all’acqua alta. Come non amarli? Li amavo. Si sentiva un casino marino sotto che non vi sto a dire. Bisogna immaginare. Raccomandai allo zio scrittore di pigliare appunti, se si sentiva di pigliare appunti, o di non pigliare affatto appunti, se si sentiva di non pigliare affatto appunti. Volevo in realtà che non mi pigliasse troppo a modello, ché qualche tempo prima ero stato a giro in alcuni posti del centro sud e non avevo preso una goccia di appunti, in quanto a me di prendere appunti quando viaggio per poi riportare tutto sulla carta, in un secondo tempo, alla stesura della pagina, a me come cosa non m'era mai piaciuta. Né ero uno che scriveva fuori e poi piano piano certosino certosino ricopiava la sua scrittura al computer. Troppa fatica. Per me lo scrivere deve essere una cosa, come dire, cotta e magnata. Comunque, ero io così. Ed ero pure in un periodo che m’era venuta fretta di diventar vecchio. E di ringiovanire coi viaggi, i taccuini, le cose non me n’era per niente. C'erano altri fior fiori di scrittori invece che te li devi vedere, dicevo allo zio, come scrivono, annotano, scattano, riempiono block-notes, fanno disegnucci, quando vanno in giro per il mondo.  
Fa come ti pare, zì, non stare a pensare a questo e a quello. Vedi tu come stai più comodo. Se camminare a mano, cioè colle mani, voglio dì, zì, ti fa venire da scrivere: cammina a mano. A mano. Sennò cammina ortodosso.
Lui accettava, in un primo momento. Poi si confondeva. Mi richiedeva… lo rincuoravo. Eravamo punto e a capo. Si riacquetava.

Farli venire a Milano era un'idea che m'era venuta proprio per rimpolpare la vena scrittorea dello zio, che in quelle ultime mesate s'era andata proprio seccando un po’, mannaggia a lui… le sue insicurezze… la sua drammaturgia tragica psicologica.
Lo zio, lo sapevo già, a Milano si divertiva un mondo a girare tra le strade del centro commerciale storico di Milano tanto che me lo immaginavo mentre parlavamo al telefonino tutto pieno di sorrisi come una bambina dentro a quelle tazzone che girano nelle piste delle giostre... si divertiva e non si sarebbe mai messo a fare appunti. Lo conoscevo troppo bene. Ero pure io contento così: così doveva fare se gli faceva piacere così. La scrittura nasce dal frizzico, zì, gli dicevo io... quando senti il frizzico, zì, che lo senti sotto le dita, che premi e quella esce… scrivi!... se non senti il frizzico, invece, che premi e non esce niente… desisti. Ma che è propriamente sto frizzico, Din, che sarebbe? Mi chiedeva lui, umilmente. Ma è una specie di felicità straordinaria zì, una forza generatrice contadina primigenia (andavo un po’ di poesia)… che ti morde alla pancia come i grandi narratori russi, zio… è una voglia matta che ti piglia tutto il corpo e poi ti metti al tavolo, escono dei capolavori indiscussi, delle gemme rare.
Capiva e non capiva. Qualche vago ricordo di suoi frizzichi passati gli balenava a mente… una mareggiata di occhiate sbieche.

Il guaio, mò, era che lo zio sto frizzico (che ogni tanto lo sapevo che l’aveva sentito) non lo sentiva oramai da qualche mese, e ferreo, stoico, statuario, non si moveva di una virgola... non muoveva un rigo! Siccome gli avevo detto di seguire il frizzico, lui non scriveva mezza parola se non sotto diretta dettatura (no dittatura... ma quasi) del frizzico. Era uno ligio al dovere. Mi era pedissequo collo scrivere che non me l’era mai stato nelle altre faccenduole della vita.

Un giorno, una sera, a Milano, si mangiava alla trattoria, me lo disse proprio: A' Dì, ma se non frizzica più qua... cazz' ding da fa? (cazzo devo fare?).
Io ero preoccupato: dico, zì, aspetta. Quando ti senti, che lo senti proprio a frizzicare, scrivi. “Sennò”, ricchiappò lui... “desisti”… chiudemmo assieme. Esatto.
E amaramente si chiuse la cena.


Com’è come non è, eravamo al terzo giorno milanese, io ero a fare alcune cose verso Lambrate che mi muovevo e spostavo le sedie, mi sento suonare il telefono, rispondo… ecchi poteva essere: era lo zio:
Oh Dì… ohhh… c’avevi ragione tu
Che è zì
Eh… mi sta a frizzicà…
Bravo zì! Scrivi…
Dici che scrivo?
Certo che scrivi… devi scrive mo… muoviti
Eh, pare na parola… sto qua a mezzo al centro di Milano… non c’ho manco ‘na penna…
Allora ‘spetta un secondo… prendi la metro, vai a casa mia…
Oh Dì allora forse non m’hai capito… è un frizzico forte… devo scrive proprio qua…
Fatti comprà ‘na penna a papà, un quaderno…
No no, io devo fa mò… mi scappa proprio a Dì… mò mi scrivo sotto
Eh però che cazzo zì  e te l’avevo detto portatati qualcosa dietro… pure un fazzoletto… Muoviti a trovà un buco su mettiti a scrive veloce..
Mò ci provo…
Dai muoviti… ciao zì
Ciao ciao…

E via di corsa. So per certo che entrò in un bar si fece dare un foglio e una penna dal cameriere, era uno dei bar più elegantoni del centro, non se n’era manco accorto quando entrava dove era capitato… gli portarono tutto, lui in preda a sto frizzico immenso… arriva il cameriere, toh carta e penna ma prima signore mi scusi prende un amaro, un gelatino un caffè? Tutto tutto, pur di scrivere… prende e arriva tutto… pure l’amaro il gelatino il caffè… Lui sudato come un pesce si ingolla tutto poi va per mettere la penna su carta tirare le prime righe e… niet… Fine del frizzico.

Morale della storia: mai aspettare troppo: se frizzica, scrivi. E mai ingozzarti nei locali dei ricconi. La scrittura non è come il pensare, che a pancia piena s’è più bravi. A scrivere si scrive a pancia vuota. Sennò muore il frizzico.







Dopo Milano, inaspettatamente, alle sette di sera, io ero rimasto su a Milano per affari miei, lui era ritornato giù con tutta la truppa, mi suona il telefono un'altra volta, era proprio lo zio ché gli era venuto il frizzico.
Oh zì, dimmi tutto... quando ha success? raccontami bene per filo per segno.
E mi raccontò... "Guardaaaa... dinamoooo... ero lì colla mia Lena (la moglie, ndr)... lena in tutti i sensi... e stavo là e pensavo, pensavo... ripensavo anche a Milano... titt' llà gent'... la metropolina... e che ti dinga dic'... ho sentito proprio dentro di me, dinamooo, ho sentito come una esplosione, un botto forte... e sì... ero il frizzico... dinamoooo.... era il frizzico..."
"E tu?"
"Mi so' miss a scrive... che duvava’fa?"
"Hai fatto benissimo… E quant' hai scritto zì?"
"Ma guarda... due pagine..."
"Vabbone... dai... vabbone... mò statti tranquillo"
"Scì scì... sto tranquillo"
"Ciao zì, bravo eh... bravo..."
"Grazie dinamo grazie".

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