Diario del nulla estivo, 1





Negli ultimi giorni c’è stato il flash-storm, un ciclone che ha alluvionato la mia provincia adriatica più ha alluvionato le case – ieri mattina passando davanti alla casa di M. l’ho visto con i secchi e gli stracci che bestemmiava, tutta la casa allagata. A casa mia pure ha piovuto molto, specialmente nell’ala più malandrina, quella superna del piano di sopra, ma io ce lo sapevo, così ho subito messo le bagnarole di guardia nei posti giusti, ho passato una mattinata a fare il portiere dell’acqua piovana. Un'onorevole sconfitta.



Molti dicono che l’italia per diventare più florida dovrebbe smantellare la propria mole industriosa e diventare un posto per soli ombrelloni, musei, vacanze marine, sciismi vari. Chi dice così è evidente che non ha mai lavorato l’estate, nel segmento turistico. Non sanno che cosa significa fare il cameriere negli chalet, i baristi, i bagnini al mare, i vucumbrà, le guide. Nemmeno io lo so che cosa significa ci mancherebbe, perché quei lavori là non li ho mai fatti, l’estate non mi ci fregavano, ma almeno mi sto zitto su questo capitolo non parlo. Non vorrei vedere tutti i grandi cittadini italiani vestiti col rigatino e lavorare per quattro spicci al mese (in realtà, per lo schifo morale e politico che fanno, un po’ se lo meriterebbero, ma non ho il cuore del punitore).

D’estate a me piaceva di più andarmene in campagna a fare il bracciante agricolo con i polacchi e i bulgari, aiutando l’impresucola paterna (capirai, sfiancavo certo, ma gli ero sempre il figlio del padrone…). L’agricoltura e l’edilizia e il turismo sono i settori meno belli in cui lavorare: c’è meno diritti, meno paga, più lavoro, più incula menti (nell’agricolo poi è il massimo). Conoscevo un polacco che beveva sempre un litro di rosso a pranzo e uno a cena. Sono sicuro che lo faceva per ingoiare l’amarezza vitale. Aveva l’italiano peggiore che si possa immaginare anche dopo anni. Indicava un oggetto o un fenomeno sociale o atmosferico o un cane e diceva “Questo problema”: in realtà ci azzeccava. E descriveva perfettamente il problema. Non sembrava normale normale ma alla fine si rivelava molto saggio (eppoi chi è davvero normale normale? Ci sarebbe da uscir pazzi). Forse a ben ripensarci non era poi nemmeno un brutto italiano quello suo. Ci siamo sempre capiti alla perfezione e non solo con me, con tutti. Poi ho sempre avuto una particolare predisposizione per quelli che vanno nei paesi stranieri e linguisticamente parlando non parlano. Si stanno zitti perché anche dopo anni non hanno imparato che poche parole. Come la sorella di mia nonna che andò nel dopoguerra in America, quando tornava, dopo tanti tanti anni, non sapeva né l’inglese né l’italiano, parlava una lingua che sembrava uscita da un istituto per i problemi della parola. Infatti mia zia, pure parlando dei suoi parenti emigrati analfabeti in Germania o nelle Svizzere, diceva che gli emigranti analfabeti suoi famigliari quando tornavano era un casino parlarci e la sua impressione era sempre che lo sbalzo linguistico, se così vogliamo chiamarlo, in soggetti così impreparati grammaticalmente, produce di solito degli handicap, che i suoi parenti infatti “sembravano tutti ‘ndcappat”.

Comunque, tornando al polacco che si chiamava Martino e pure lui sembrava ‘ndcappat delle volte, lui era l’addetto dell’acqua di rame e del taglio dell’erba. Quando dava l’acqua di rame o il diserbante all’erba, si metteva la pompa sulle spallucce e poi andava ad annaffiare di gas le piante senza mascherina, senza tuta, senza nessuna protezione né al naso né agli occhi e soprattutto con un sigaro spento piantato in bocca; dopo finito lo fumava. Chissà che fumava.
Ricordo chiama ricordo: questa storia ora mi fa tornare in mente Mollica, un mio compagno delle scuole medie. In quel torno di tempo ci piaceva far finta di fare gli ultrà della curva della squadra del paese allora militante nel partito calcistico della serie C1. La domenica vedevamo questi grandi ultrà rompere e spargere per l'aria grandi bombolette di fumogeni che riempivano il cielo di giallo e rosso a strisce. Mollica era uno basso, poi l'è rimasto, ché non è cresciuto tanto, e quando quelli facevano partire i fumogeni lui si agitava sempre moltissimo, e piccolo piccolo si intrufolava, faceva, scattava, si inventava di tutto per mettersi prossimo allo scappamento fumogeno. A scuola un giorno si studiavano le scienze umane, il professore disse che contro il fumigare allo stadio c'è chi si attappa il naso, chi si copre con la sciarpetta, chi si allontana... Mollica a questo punto fece il suo unico grande intervento di tutti i tre anni delle scuole medie, dicendo "Professò, je nn c' mott nint", cioè professore, io non ci metto niente. Come l'amico polacco Martino. Poi è diventato un tossico (Mollica; Martino beve e basta).


A ‘ndcappat la mia zona stava messa benissimo. È il classico discorso centro-periferia. La periferia, specie se campagnola, ha un portato di vita maggiore rispetto al centro: succedono più fatti, ci vive più fantasia e l’abitudine della gente a stare lontana dal consorzio umano mista ad un po’ di pazzia che la campagna ispira la sera tardi, a mezzogiorno e la mattina presto, per sua natura fanno sì che quei luoghi siano più fertili in campo artistico. Una volta un operaio molto in gamba fece un giro per la mia zona perché doveva parlare con qualcuno e chiedergli un favore. Siccome non sapeva bene dove doveva andare, cominciò a chiedere in giro. Chiedi chiedi, prima incontrò uno poi ne incontrò un altro, poi un altro ancora. Tutti normali scemi della contrada che noi manco ci facciamo più granché caso. Quando finalmente pervenne alla meta, la quale meta era mio zio, che per altro si trovava là per puro caso, gli disse “Ma so’ tutti ‘ndcappat in questa zona?” e figuratevi che non aveva ancora mai parlato con me.



I migliori comunque, i migliori in assoluto, sono quelli che vanno in un altro paese solo per imparare un’altra lingua – non come i bulgari o i polacchi di sopra che sono venuti da noi per lavorare e poi dovendo lavorare, una cosa e un’altra, e dovendo vivere, imparano un po’ l’italiano – parlo qui proprio di chi prende un aereo e una casa in terra straniera con l’obiettivo di imparare l’idioma di quel posto: e non lo imparano. Anche per scelta. ne ho conosciuti molti, specie tra gli spagnoli. Anzi tra le spagnole. Venivano in Italia e stavano sempre tra di essi. E quando tornavano a casa sapevano solo poche frasi in italiano. tipo ciao come stai? Mi dai caffè corretto.

Poi c’è anche il caso letterario del Ferdinand di Morte a credito che va in Inghilterra, un’Inghilterra a dire il vero un po’ magica, e questa magia oltre a regalargli una mezza scopicchiata con un’istruttrice che poi impazzisce, gli regala pure la sua (di lei) morte per annegamento (mi sembra suicidio) e soprattutto il suo ritorno a Parigi senza sapere mezza parola di inglese: per scelta. e pensare a tutte le lotte dello zio per convincere il padre suo a farlo andare in Inghilterra a imparare l’inglese che gli poteva tornare utile nel commercio. Invece niente. Si rifiutava.

Invece lo spagnolo che viveva in casa da studente con noi alla fine l’italiano lo imparò. Io parlavo velocissimo e parlavo sempre, ora invece parlo lentissimo che cascano le braccia e non voglio parlare mai, invece prima parlavo abbastanza spedito e copioso e lui mi chiedeva, io gli dicevo qua si dice così qua colà, e lui imparava; poi gli davo qualche libretto da leggere, e dei film pornografici da vedere, perché sapevo che avrebbe visto solo quelli, gli piacquero moltissimo Il confessionale e Penocchio, e rimase fulminato di gioia la sera che passeggiando barcollanti per le strade festanti di San Lorenzo incontrammo il grandissimo Francesco Malcom che andammo subito a intoppare, sei Penocchio, sei Malcom… e lui che si schermiva, diceva macché, me lo dicono tutti, io mi chiamo Giorgio e noi che gli dicevamo no no sei tu, e lui che prima diceva m’assomiglio m’assomiglio ma alla fine confessa e dice so’ io, so’ Malcom. Grandi ricordi. Una birra coll’eroe italiano del coinquilino spagnolo. Il grande Malcom (io però non per dire ma avrei preferito Monica Roccaforte).





Ecco quelli erano anni che potevano succedere due tre cose in una sera. Anche gli anni dopo, in verità, ma in maniera diversa. Perché erano cambiate le nostre teste. Delle volte mi veniva come la sensazione che le cose non succedevano perché dovevano succedere per forza, come spinte da una forza automatizzata, ma succedevano perché noi eravamo talmente tanto desiderosi che succedessero che quelle si sentivano come un pallone che va verso la rete spinto dall’urlo e dal fiato dei tifosi e dai e dai niente erano costrette a succedere. Entravano. E succedevano. Oggi invece le cose succedono in mezzo all’indifferenza di me che succedano o no. e io trovo che in un certo qual senso sia meglio adesso. Ché mi meraviglio. Prima non mi meravigliavo tanto. Oggi mi potrei trovare al fianco di Walter Zenga o di Arrigo Sacchi senza nemmeno accorgermi di essere io quello che incontra.




continua...

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