Il lavoro, la coscienza e altre storie
La cosa peggiore è che se sei sempre stato un animale da soma, abituato a sfiorire per il tozzo di pane, quando per vari motivi riesci a smontare dall'ingranaggio repellente (per un buon periodo), ti senti in colpa di non stare facendo niente. Fare niente non t'appartiene. Il dolce farniente dei ricchi.
Insomma sai precisamente che dopo anni passati a spalmare grasso sul tuo cervello, il tuo cervello è diventato come quei fogli di plastica pieni di bolle che imballano gli oggetti delicati e che i bambini fanno scoppiare colle dita: il sistema ti ha davvero scavato (evidentemente laddove non c'era nulla) un buco, t'ha scavato nel petto la cosiddetta "coscienza" da lavoratore... Sei diventato quello che Marshall McLuhan chiamava "servomeccanismo": servo meccanismo. Lo spirito è da tempo un topolino ubriaco di veleno, tramortito, lungo sulla tavola della tagliola, pronto ad essere gettato assieme alla raccolta della spazzatura. Questo vale anche se hai il profilo di quello che passa volentieri il pomeriggio in biblioteca a leggere Arthur Schopenhauer e a sbavare dietro al sempiterno Fëdor Michajlovič Dostoevskij... sei pur sempre uno che ruba tempo al rumorio della macchina, uno che accetta di studiare solo quando la propria catena di montaggio è appesa al chiodo per fine turno e ringhia addosso alle lancette dell'orologio come il leone della Metro Goldwin Mayer.
La povertà è questo, una malattia che ti costringe a vivere sotto chiave, sotto stretto controllo, colla necessità che chiama di rimbalzo Aiuto Esterno, condanna alla "collaborazione" e alla sua tentacoleria... la povertà è la testa che penzola sull'asse del cesso, la cui unica redenzione è quella merda chiamata Lavoro, che non solo devi spezzarti come una colonna vertebrale, come un bicchiere, devi spezzarti a fare per tenerti a galla, ma devi anche amarlo, venerarlo o far finta che sia così: "venero il mio lavoro! venero la fabbrica dove sputo sangue da quarant'anni!"... devi amare la tua coscienza di classe lavoratrice, il remo della tua galera, il reparto, il tuo lenone! Come si fa ad amare un capannone industriale? Eppure, forse unica nota consolatoria, dopo anni di atrocità e delitti, l'umanità buona, quel soffio che ognitanto vibra tra i rasoi della vita, riesce a penetrare come fumo anche lì, ad umanizzare anche l'inumano il macchinale l'infido: anche in quel bazar impossibile, alle volte, uno ficca dei bei ricordi e delle belle risate... Una consolazione, certo, sgolante e paurosa. L'ultima spiaggia prima di morire.
Tutto questo il poveraccio se lo trova apparecchiato dalla nascita, parcheggiato in un'attesa carnefice, giacché nasce malato di povertà, come un figlio nato da due sieropositivi. Alla povertà, che diventa assolutamente coscienza e alle volte programma politico e rappresentaza floscia e posticcia, non c'è alcuna salvezza, per lo meno non c'è salvezza mentale, non c'è alcuna possibilità d'evasione dal mondo. Noi poveri insomma ci schiantammo all'uscir dall'utero, che è stata una curva a gomito presa a centocinquanta all'ora.
Per i ricchi, le catene sono altre, credo più dolci ma non meno devastanti a livello mentale, specie di quella classe aberrata e tutta sterco, meglio detta piccola-medio-alta borghesia o finanza...
Sulla gente di cultura che qua e là ho conosciuto, parleremo un'altra volta...
Insomma sai precisamente che dopo anni passati a spalmare grasso sul tuo cervello, il tuo cervello è diventato come quei fogli di plastica pieni di bolle che imballano gli oggetti delicati e che i bambini fanno scoppiare colle dita: il sistema ti ha davvero scavato (evidentemente laddove non c'era nulla) un buco, t'ha scavato nel petto la cosiddetta "coscienza" da lavoratore... Sei diventato quello che Marshall McLuhan chiamava "servomeccanismo": servo meccanismo. Lo spirito è da tempo un topolino ubriaco di veleno, tramortito, lungo sulla tavola della tagliola, pronto ad essere gettato assieme alla raccolta della spazzatura. Questo vale anche se hai il profilo di quello che passa volentieri il pomeriggio in biblioteca a leggere Arthur Schopenhauer e a sbavare dietro al sempiterno Fëdor Michajlovič Dostoevskij... sei pur sempre uno che ruba tempo al rumorio della macchina, uno che accetta di studiare solo quando la propria catena di montaggio è appesa al chiodo per fine turno e ringhia addosso alle lancette dell'orologio come il leone della Metro Goldwin Mayer.
La povertà è questo, una malattia che ti costringe a vivere sotto chiave, sotto stretto controllo, colla necessità che chiama di rimbalzo Aiuto Esterno, condanna alla "collaborazione" e alla sua tentacoleria... la povertà è la testa che penzola sull'asse del cesso, la cui unica redenzione è quella merda chiamata Lavoro, che non solo devi spezzarti come una colonna vertebrale, come un bicchiere, devi spezzarti a fare per tenerti a galla, ma devi anche amarlo, venerarlo o far finta che sia così: "venero il mio lavoro! venero la fabbrica dove sputo sangue da quarant'anni!"... devi amare la tua coscienza di classe lavoratrice, il remo della tua galera, il reparto, il tuo lenone! Come si fa ad amare un capannone industriale? Eppure, forse unica nota consolatoria, dopo anni di atrocità e delitti, l'umanità buona, quel soffio che ognitanto vibra tra i rasoi della vita, riesce a penetrare come fumo anche lì, ad umanizzare anche l'inumano il macchinale l'infido: anche in quel bazar impossibile, alle volte, uno ficca dei bei ricordi e delle belle risate... Una consolazione, certo, sgolante e paurosa. L'ultima spiaggia prima di morire.
Tutto questo il poveraccio se lo trova apparecchiato dalla nascita, parcheggiato in un'attesa carnefice, giacché nasce malato di povertà, come un figlio nato da due sieropositivi. Alla povertà, che diventa assolutamente coscienza e alle volte programma politico e rappresentaza floscia e posticcia, non c'è alcuna salvezza, per lo meno non c'è salvezza mentale, non c'è alcuna possibilità d'evasione dal mondo. Noi poveri insomma ci schiantammo all'uscir dall'utero, che è stata una curva a gomito presa a centocinquanta all'ora.
Per i ricchi, le catene sono altre, credo più dolci ma non meno devastanti a livello mentale, specie di quella classe aberrata e tutta sterco, meglio detta piccola-medio-alta borghesia o finanza...
Sulla gente di cultura che qua e là ho conosciuto, parleremo un'altra volta...
Il brutto è quando ti inculcano che ce la puoi fare, che con lo sforzo o la grinta e il bastante pizzico di fortuna puoi arrivare in cima e salvarti dal bisogno.
RispondiEliminaCi si sconvolge con l'infinita variazione della Storia DI Chi Ce L'Ha Fatta (ma a fare cosa?.
Poi gli anni passano e ti accorgi che non ce l'ha fatta mai nessuno e che tutto va come va e non si sa perché ...
E si rimane animali da soma, aggrappati alla corda, con il terrore che si spezzi.
Nella mia vita la corda si è spezzata varie volte.
In quello che dovrebbe essere il periodo più produttivo di un essere umano (tra i 35 e i 45) non ho potuto versare alcun contributo (cococo, cocopro, nero, coordinata e continuativa ... me le sono sparate tutte le stronzate, in vena), lavoravo in media dai sei ai nove mesi l'anno
e poi trovavo con la luce tagliata varie volte e neanche i soldi per la spesa ...
cazzo se lo so, cos'è la povertà.
Mi salvava dalla disperazione la musica, i libri, la scrittura, il buddismo. Giornate lunghe e la notte desolazione.
Adesso molte cose sono cambiate, da qualche anno sono riuscito a risalire la china, come si dice, ma rimango un servomeccanismo sottoposto a usura e sempre sull'orlo del burrone. Come migliaia e migliaia di persone.
Alla fine ti salva l'orgoglio, un po' ...
Le catene dei ricchi non mi interessano, io non provo nessuna pietà per loro, in nessuna forma.
Danno troppo per scontati i loro privilegi.
Di fronte alla fame ogni pietà cessa. E anche ogni cultura.
E' per questo che i signori del mondo devono stare attenti a non tirare troppo la corda ...
Nessun esercito o guardia del corpo può salvarti dall'assalto di migliaia di persone inferocite ...
E'il mio sogno più feroce ...