Su Rodolfo Wilcock e altre questioni buffonesche
La tentazione, davanti a una intelligenza creativa così acuta e potente come quella di Wilcock (uno dei numi del mio impersonale pantheon letterario), è quella di pubblicare tutto un libro, e non solo un fronzolo, qualche briciola - che comunque io le adoro, le briciole - qui sull'immodesto blog lunare... ma non si può, e ci accontentiamo di questo scoppiettante pezzetto sulla censura letteraria ai piedi dell'articoletto.
Va da sé che la piccola antologia di scritti critici Il reato di scrivere (da cui estraggo) merita sicuramente un'oretta del nostro prezioso tempo, così come moltissimi dei libri di Wilcock che ha avuto il pregio di scriverne tanti oltre che nella madre lingua spagnola, anche in italiano.
Va da sé che la piccola antologia di scritti critici Il reato di scrivere (da cui estraggo) merita sicuramente un'oretta del nostro prezioso tempo, così come moltissimi dei libri di Wilcock che ha avuto il pregio di scriverne tanti oltre che nella madre lingua spagnola, anche in italiano.
Il suo uso umoristico dell'italiano mi fa sempre tornare in mente quell'idea, che penso di avere già abbondantemente espresso qui sopra, non ricordo più dove, (oppure l'avevo promesso e non l'ho mai scritto?), secondo cui il buffonesco è una delle matrici più importanti, uno dei fiumi maggiori della nostra lingua, che se uno vuole umoreggiare, in italiano, ha una prateria davanti a sé, ma una prateria con un paesaggio ben noto, fatto di voci e tonalità e suoni, percorsi che si somigliano tutti tra di loro. Si tratta di una lingua volta al positivo, euforica, sfottegna, incivile ma moralissima, giocosa ed efferata. E' insomma un vero paese: se lo abiti anche solo per qualche ora diventi di quel paese, regalandogli qualcosa ma venendone completamente abitato.
Se ci fate caso, da Boccaccio ad Ariosto su tutti, passando sopra a molti minori e minorissimi canterini di cui restano poche carte fino ai nostri giocosi (e tragici) contemporanei, cioè a Manganelli a Landolfi a Svevo a Gadda a Dossi arrivando all'itinerante Wilcock, se ci fate caso, dicevo, le movenze linguistiche, e direi anche stilistiche, le voci e i giri di frase, la postura, i gesti sono similari: sono infatti accolti maternamente dallo stesso ventre linguistico e mi verrebbe da dire: non c'è madre più esigente e severa di questa. Sembra infatti un genitore bonario e permissivo (in parte lo è), ma la lingua madre buffonesca o simil buffonesca italiana ha delle regole fisse, come tutti i linguaggi, e funziona solo se le si rispetta: fra tutte una positività scettica e dissacrante, parodica e metaparodica, fanciulla, eterea. Per usare un colore: celeste. Questo dire le cose prendendo sottilmente in giro la lingua, facendo quasi una caricatura della lingua alta, letteraria, di un canone aulico e altolocato, quindi della lingua del potere, viene credo da esigenze di corte, da una cultura cortese che ha conservato con tutti i guai e no del caso praticamente intatta la nostra lingua letteraria, lingua di bellezza e di privilegio... da qui l'abilità, l'astuzia di un manierismo che smonta il linguaggio dall'interno, per creare un cortocircuito nei contenuti spesso encomiastici che veicola: beffare l'uditorio sulle sue stesse note, coi suoi stessi strumenti. Allieta. Ma lascia svuotati. E' una presa dal basso di registri e stilemi appartenenti all'alta società, all'"alto" vivere e spostandoci un po' dal sociale al filosofico, all'alto pensare, al pensare maggiore... non a caso, il buffonesco ha vocazione minoritaria. E funziona maggiormente se è da buffoni, minori, annullatori di sé stessi, si parla.
Il guaio di una scrittura o peggio di una lingua che non funziona perché usata male - e qui finisco, lasciando la parola a Wilcock - è che purtroppo pochi se ne avvedono, in quanto manca un raffronto davvero fattuale, un riscontro fisico; se però noi tornassimo ai tempi dei canterini e dei cantastorie, chiunque, qualsiasi orecchio (anche quelli più studiati e libreschi... forse), davanti a un testo con un linguaggio usato malamente, si accorgerebbe che ci sono degli errori, errori come dire musicali, stonature perché in fondo la scrittura è musica, o meglio la scrittura che interessa me è una cantilena scritta.
A questo mi fa pensare, qualche volta, se ci penso, Rodolfo Wilcock...
Da Aspettando la censura - Il reato di scrivere
[...]
Non so gli altri, ma di me posso dire che, nell’ancora libera Italia, io vengo censurato continuamente, nei posti più impensati: in un libro pubblicato da Adelphi mi è stata censurata la parola «traliccio» perché poteva apparire irriguardosa nei confronti del defunto Giangiacomo Feltrinelli! La minaccia della censura è sempre stata un incubo soprattutto per quegli artisti che hanno poche idee. Supponiamo poi che l’artista in questione ne abbia una sola, come spesso accade tra intellettuali, e che questa gli venga soppressa: una situazione davvero imbarazzante.
Ma per chi di idee ne ha molte, le potature del censore (non totalitario, cioè, non la potatura totale e definitiva, che è un’altra canzone) non saranno mai una tragedia. Si è visto per esempio il caso di un film girato quasi interamente davanti a un ottuso censore spagnolo, il quale ordinava senza posa di sopprimere questa o quella inquadratura e per ogni cosa che gli veniva vietata il regista ne inventava una migliore. L’ultima scena dell’opera doveva infine presentare i due protagonisti finalmente congiunti nell’amplesso amoroso, e anche questo particolare tradizionale il pubblico ufficiale ebbe a trovare spinto, sicché il regista esplose adirato: «E allora che vuole che facciano, che li metta a giocare a carte?». Il censore approvò subito questa idea, e anche il regista la trovò buona, e così venne dato al film un finale molto più intelligente di quello previsto nel copione. Ma naturalmente la Spagna non è un Paese totalitario, dove il buon regista invece di girare un film sarebbe o morto o in campo di concentramento.
L'insistenza di Joyce
Appunto per questo scrisse Borges una volta, non senza una punta di ironia: «I miei scritti sono così poveri, che persino un magistrato può migliorarli». Non è detto infatti che non sia una prova di immaturità artistica quell’insistenza di Joyce giovane, fermamente protrattasi per ben tredici anni se non più, nel non voler mutare, non diciamo una riga ma nemmeno una parola dei suoi racconti, per quanto glielo chiedessero i successivi editori a cui il manoscritto veniva presentato; quasi che ogni pezzo di ogni suo racconto fosse stato una gemma, il che può pure essere vero se si pensa che quelle novelle erano destinate a diventare antenate di quasi tutti i racconti scritti in seguito per almeno quaranta o cinquant’anni.
Ma se quei pezzi da sopprimere erano davvero gemme, è strano che Joyce non si sentisse abbastanza ricco e sicuro da poterle sostituire con altre ugualmente preziose. La verità è che quei passi che ferivano editori e tipografi (perché in Inghilterra erano soprattutto le tipografie a subire i rigori della legge) erano stati messi lì appunto per ferire, ed è a questa sua personale vendetta o provocazione che Joyce non voleva rinunciare: per lui era importante poter chiamare «vecchia ubriaca» la regina Vittoria; ma su questo piano si confondono l’arte e la politica, e ogni passo in tale direzione è un passo appunto verso la concezione totalitaria, che dal confondere l’arte con la politica presto arriva al sostituire interamente con la politica l’arte. Questo è il cammino che hanno seguito molti dotati scrittori italiani, fino alla quasi totale cancellazione; e come sembrano oggi seri, persino al pubblico, quelli che non l’hanno seguito, si chiamino Campanile o Landolfi.
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