Livorno nocturne campagnolo (il cappotto di Piero Ciampi parte 2)




Comunque, a Livorno, m'ero scordato di dire l'altra volta, oltre allo zio dell'amico mio, ci andai a morire un pochettino pure io, ma giusto un pochettino, per far dell'arte dopo, non vi state troppo a preoccupare, e soprattutto per motivi più ludici e da ridere (appena un amorino), e senza giubbotti seri e ricamati, semmai co' 'na bella giacca a vento primaverile ché si era sul finire di aprile e si stava bene leggerini, poco costipati. Rispetto a questo leggendario zio che stette a Livorno proprio il tempo di tirar le cuoia, poverino, io ci stetti più a lungo, ci feci quasi lo stazzo... il servizio militare 'n altro po' ci feci a Livorno... puzzando da ospite già dopo tre giorni come il pesce, come si suol dire, (e dopo tre mesi allora?), e ci tirai alla meno peggio quelle prime calde settimane a ridosso dell'estate, accoccolato nella pur ridondante bambagia della grande villa di un carissimo amico benestante milanese che possedeva codesta antica villetta via materna (colla madre, ahimè, ancora vivente), in quelle grandi lenzuolate di terra che sono le campagne livornesi, negli inghiottitoi tra Pisa e Livorno, in realtà più Pisa che Livorno, ma non fa niente. Di notte andavamo ovviamente a Livorno, Pisa non ci diceva niente... ma a dire il vero pure di giorno, ci andavamo a Livorno, almeno quando ci ricordavamo di svegliarci, oppure si dava retta, 'gni tanto, alla madre dell'amico che da padronaccia indiscussa del feudo bisognava pure prezzarla qualche santa volta, e in una di queste ella finì con mio stupore a raccontarci la novella dell'omo senza il cazzo e del paese dei culi rotti, come per chi se lo ricorda in quel gran film la madre del Cioni Mario, la strepitosa Alida Valli, racconta sorbendo la minestra comica, davanti al focolare spento, al suo figliolo Cioni Mario... Vuoi o no, comunque, e a parte queste interferenze non meno piacevoli, ci si ritrovava sempre a pascolare per Livorno, ecche ci dovaam fa là, scusatemi, svegli, in mezzo alle campagne, dopo aver sentito tutte le favolette della feudataria? I cuori romantici, quanto possono durare, al massimo un quarto d'ora, secondo me... poi s'accendono 'na sigaretta e tela, colla macchina. E così noi. 
Su quelle campagne, comunque, sulle stradine delle campagne, ci passavamo tutti i giorni e tutte le notti, all'andata o al ritorno da Livorno, e le guardavamo bene, benissimo io, attento come non lo sono stato mai, e la notte soprattutto tutto intorno era tremendo, imperversava per la piaggia come dicono i poeti tradizionali un buio impossibile, un buio che io in campagna, voi lo sapete, ci ho abitato, ci abito, e lo so che significa 'la campagna' ma prima di arrivare in quelle campagne del livornese-pisano, so' sincero, io un buio così non l'avevo mai visto (o non-visto, non lo so), un buio completamente nero, ma nero nero, (un nero “da vero”, come diceva mio padre, colla v' da sdentato), e se di notte, quando tornavamo dai nostri pascolamenti a Livorno, spengevamo i fari della sua Y10, per farci uno scherzo di paura l'un l'altro… puf!... con quel gesto non c'era più nulla, spengeva il mondo, tutto spento, e dalle mani di questo nulla, se così si può dire, una notte uscì fuori tutto intero un signore tracagnotto in bicicletta, senza lucina davanti, che passandoci accanto (noi cogli occhi sbarrati), per sommo dello sberleffo ci fece pure una bella scampanellata sorridente e un fischio, o era 'na pernacchia?... cosa ci potesse fare un signore in bicicletta alle cinque di notte, senza lucina, in mezzo a quel nisba di case e paesi, in quel crepaccio inabitato per chilometri e chilometri, pure a rifletterci mò dopo alcuni anni, non riesco proprio a capirlo... forse fu più semplicemente una allucinazione collettiva, ché poi eravamo in tre; forse fu una allucinazione della campagna livornese pisana, che se si mettono insieme che ne sai ne fanno di belle, o una allucinazione del signore tracagnotto... mbù... Ma fu comunque un bell'incontro, un incontro... al buio, che poi non ne ho fatti più e perlomeno ora ve l'ho potuto raccontare, che è pur sempre un bel racconto per uno di poche parole e tutte storte come me.


A Livorno non c'è praticamente niente. Tranne la scacchistica terrazza Mascagni che punta verso il mare aperto spaziosissimo blu coi sottomarini e le navi crociera e i mercantili che lo attraversano lungo la linea dell'orizzonte, e poi c’è il grande porto che a me i porti mi fanno ammattire, pure quelli brutti tipo uno a caso quello di Pescara, e infine un esagerato lungomare, che il lungomare dove abito io, in Abruzzi, a confronto, fa solo ridere i polli. Perciò Livorno è proprio una città da mare, ché la devi vedere dal mare, ché il bello è disposto tutto là davanti, pronto per essere ammirata e lodata sporti dalle balaustre, in approdo, dai marinai e dai viaggiatori che la guardano galleggiante da in mezzo all'acqua, o dalle navi da crociera, come dei governanti in gita nei paesi dove c'è la dittatura che ti fanno vedere solo le facciate del regime. 
In quel tempo, ad ogni modo, io saltavo sempre dietro quella facciata, che mi piaceva anche di più della facciata vera e propria, e c'era anche un amore che mi batteva a Livorno, ed era per quello che non me la fidavo di tornarmene a casa mia e continuavo all'infinito quel servizio militare. Un amore conosciuto proprio al lungomare e fatto tutto d’acqua, e petrolio pure, essendo liveronese come amore e essendo come quei pellicani che escono tutti sporchi dal mare appena inquinato dallo spettacolare affondamento di una petroliera nel mar Baltico...  Questa ragazza aveva un solo difetto, che si innamorava di tutti, e correva dietro alle fascinazioni, che spasimava troppo a mio modesto avviso per i militari paracaduteschi che là, lo sanno tutti, ne trovate a buttare (appunto), e come le sue prossime ave le avevano involontariamente insegnato, e spasimava pure - e questo è assurdo - per le storie da centro sociale o di centro anarchico, tipo anarch-Castellaccio, per dire così a cavolo, ché io le dicevo oh Mirè, ma o una o l'altra, o i militari o gli anarchici... come cazz'è che a te ti piacciono tutti?  A me mi garba quello che mi garba, mi rispondeva...e poche chiacchiere.... Più anarchica di così, anche se in quel tempo la ragionavo in altri termini. 
Così, non potendo troppo mettermi là a competere,  che giocavo troppo sfacciatamente fuori casa, troppo gracile come parà e troppo liberatario per stare in un gruppo anarchico, me ne tornai per la più corta a casa mia, non dico a piedi ché non sarebbe vero, ma quasi, viaggia oggi viaggia domani, zompando come il vento da un treno all'altro, senza una lira in tasca e facendomi scoraggiare praticamente subito dall’impresa di continuare a fare la corte a quell'angiolo di ragazza brilla di vita, e alla fine così, mentre tornavo a casa lo capivo, come sempre succede... non successe nulla. Che è questa la vita, pensavo. La mia, almeno e con questo amoretto andato a male, se ne andò un bello strato di pelle di quel non troppo lontano Dinamo. 
Prima di abbandonare la donzella alle sue licenze politiche, però, ebbi il tempo di dare spettacolo alla stazione di Livorno, ma non come avevo sempre sognato fin allora, con cose mirabolanti e ricordative. Alla stazione di Livorno, il treno di una nostra comune amicizia arrivava, e noi festosissimi guardavamo a destra e a manca alla ricerca della porta automatica che ci avrebbe fatto buttare le braccia al collo di questa amica, a lei sorella, che non vedevamo da un po'. Io tenevo come sempre i pantaloni distrattamente, e dietro alla tasca il portafoglio ballerino. In breve, con questo bailamme, mi si fotterono il portafoglio. Ma si avverò - e questo è bellissimo - la mia premonizione contenuta in uno dei miei primi racconti, quello sul ladro poveruomo gentiluomo il quale frega il portafoglio ma non vandalizza la vittima e lo fa ritrovare (il portafoglio) senza soldi ma coi documenti intatti. Così io dopo aver frugato in molti cassonetti della monnezza e cestini sopra a tutta la stazione, alla fine venni fischiato da un poliziotto ferroviario che mi disse sei tu il cretino che s'è fatto fregare il portafoglio che troppi ne tieni di soldi? So' io. Viè qua. Ce l'abbiamo in caserma. E chi glielo diceva a quello, e a quelle due sgallettate della mia fidanzata e di sua sorella che coi loro schiamazzi io lo sapevo perfettamente avevano attirato l'attenzione su di me e sui miei rallentati riflessi, chi glielo diceva che io davo a vedere a tutti, che io facevo la mossa di rallegrarmi di questi documenti intatti intonsi, ma in cuor mio sognavo una bella fuga anonima dispersa e disperata senza alcun documento alla Mattia Pascal, per rifarmi, e ancor meglio alla Charles Fiori, che è vero, volendo, avrei potuto smarrirli pure di proposito quei cazzi di documenti, ma non sarebbe stata la stessa cosa e la sera poi visto che avevo i documenti e non potevo più scappare, la sera mi misi a cantare a squarciagola in mezzo alla via davanti a qualcuno mi misi a cantare Sobborghi di Piero Ciampi ché me ne ero uscito di capoccia pure io un po', e poi ero morto lasciando Livorno (il cuore a Livorno), dopo questo canto sincerissimo ella si emozionò molto, e mi guardava innamorata come non aveva mai fatto. E c'è soddisfazione a fa' ste cose... anche se poi andò co' un altro che cantava malissimo... ma a me mi diede un bacio indimenticabile. Alla fine dell'esibizione.




***


Ora, per chiudere in bellezza veramente questo gran dittico e questa gran rassegna su Piero Ciampi, dove di Piero Ciampi non si dice praticamente niente (come ha da essere un bel saggio critico che si dica tale su un qualsiasi autore;ma pure: parlare di un amore offeso e inconcluso non è il miglior modo di parlare delle canzoni di Piero Ciampi?) permettetemi una riflessione che mi sta qua alla gola da un po' e voglio quindi ricordare quello che Thomas Bernhard mise sulle labbra del narratore austriaco di Estinzione (1986, anno a me molto caro), che ad un certo punto parlando con il suo allievo italiano Gambetti dice che "...l'italiano sta al tedesco come un bambino di famiglia agiata e felice, cresciuto in piena libertà, sta ad un bambino di famiglia poverissima, oppresso, picchiato e reso astuto dalle botte". E' evidente che Thomas Bernhard non conosceva i dialetti italiani, che sono tutti figli poverissimi, oppressi e picchiati e resi astuti dalle botte; ma è ancora più evidente che non fosse mai venuto a Livorno, una delle meno armoniose città dell'armoniosa Toscana; ed è ancora più evidente evidente che non avesse sentito mai cantare Piero Ciampi colle sue parole e le sue stonature, saltabeccare Italo Svevo colla sua mala lingua, raccontare Federigo Tozzi, colle sue frasi secchissime e amare. Che tutto hanno adoperato questi tre tranne che una lingua agiata e felice, fatta bene ed anzi non solo avevano preso le botte ma le avevano pure ridate all'italiano questi qua, non porgendo né guance né fianchi. 
Ma alla fine è pur vero che non siamo tutti uguali, e un Manganelli acrobatico tedesco me lo figuro proprio male male male... e con lui un po' c'ha ragione pure Bernhard che di sé diceva, giustamente, d'essere intraducibile in altra lingua...  






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