Il frizzico dello zio scrittore
A Milano, lui mio padre mia zia i miei
fratelli e mia cugina la zittella erano venuti per qualche giorno e se ne
andavano a zonzo per passare il tempo vacanziero. Ora io non c'ero, avevo momentaneamente
da badare ad alcuni fatterelli miei privati per cui m’ero inerpicato apposta a
Milano, ma mi hanno raccontato che durante questa gita mio padre e mio zio con
dietro quella corte parevano Totò e Peppino nel film della Malafemmina, tanto
stavano stonati e fuori strada in un contesto così urbano. Sul metrò, si
racconta, parlavano fortissimo, ostentando fino all'inverosimile, si può dire,
la vocazione al dialettico; la cosa li faceva sentire evidentemente molto
fregnoni, con mia sorella che è sempre stata un po' scorbutica e perfezionista la
quale si schermiva di quella sua compagnia di voci dove era finita e scantonava
botta a botta, sentendosi pure un po’ superiore alla sua razza famigliare e
dando a vedere ai milanesi che lei quella gente non la conosceva. Pure mia zia
che di solito aveva maniere più cittadine, essendo ella nata nelle Svizzere ma
da genitori dell’entrostato teramano, adesso, nel frangente attuale
metropolitano lumbard e tra le guglie del Duomo e le cravatte e le giacche e
gli aperitivi felici, chissà perché le venne come un colpo antropologico di
manifestare da che rango provenisse e diede fondo al suo vociare più chiaro,
netto e sudista, e non ci furono cristi a farla ritornare alla sua pur sempre
adolescenza capitolina delle Svizzere.
Ad un certo punto mi chiamarono al
cellulare. Sembrava una colonia estiva di bambini che li avevano portati
all’acqua alta. Come non amarli? Li amavo. Si sentiva un casino marino sotto
che non vi sto a dire. Bisogna immaginare. Raccomandai allo zio scrittore di
pigliare appunti, se si sentiva di pigliare appunti, o di non pigliare affatto
appunti, se si sentiva di non pigliare affatto appunti. Volevo in realtà che
non mi pigliasse troppo a modello, ché qualche tempo prima ero stato a giro in
alcuni posti del centro sud e non avevo preso una goccia di appunti, in quanto
a me di prendere appunti quando viaggio per poi riportare tutto sulla carta, in
un secondo tempo, alla stesura della pagina, a me come cosa non m'era mai
piaciuta. Né ero uno che scriveva fuori e poi piano piano certosino certosino
ricopiava la sua scrittura al computer. Troppa fatica. Per me lo scrivere deve
essere una cosa, come dire, cotta e magnata. Comunque, ero io così. Ed ero pure
in un periodo che m’era venuta fretta di diventar vecchio. E di ringiovanire
coi viaggi, i taccuini, le cose non me n’era per niente. C'erano altri fior
fiori di scrittori invece che te li devi vedere, dicevo allo zio, come
scrivono, annotano, scattano, riempiono block-notes, fanno disegnucci, quando
vanno in giro per il mondo.
Fa come ti pare, zì, non stare a pensare a
questo e a quello. Vedi tu come stai più comodo. Se camminare a mano, cioè
colle mani, voglio dì, zì, ti fa venire da scrivere: cammina a mano. A mano.
Sennò cammina ortodosso.
Lui accettava, in un primo momento. Poi si
confondeva. Mi richiedeva… lo rincuoravo. Eravamo punto e a capo. Si
riacquetava.
Farli venire a Milano era un'idea che
m'era venuta proprio per rimpolpare la vena scrittorea dello zio, che in quelle
ultime mesate s'era andata proprio seccando un po’, mannaggia a lui… le sue
insicurezze… la sua drammaturgia tragica psicologica.
Lo zio, lo sapevo già, a Milano si
divertiva un mondo a girare tra le strade del centro commerciale storico di
Milano tanto che me lo immaginavo mentre parlavamo al telefonino tutto pieno di
sorrisi come una bambina dentro a quelle tazzone che girano nelle piste delle
giostre... si divertiva e non si sarebbe mai messo a fare appunti. Lo conoscevo
troppo bene. Ero pure io contento così: così doveva fare se gli faceva piacere
così. La scrittura nasce dal frizzico, zì, gli dicevo io... quando senti il
frizzico, zì, che lo senti sotto le dita, che premi e quella esce… scrivi!...
se non senti il frizzico, invece, che premi e non esce niente… desisti. Ma che è propriamente sto frizzico, Din, che
sarebbe? Mi chiedeva lui, umilmente. Ma è una specie di felicità straordinaria
zì, una forza generatrice contadina primigenia (andavo un po’ di poesia)… che
ti morde alla pancia come i grandi narratori russi, zio… è una voglia matta che
ti piglia tutto il corpo e poi ti metti al tavolo, escono dei capolavori
indiscussi, delle gemme rare.
Capiva e non
capiva. Qualche vago ricordo di suoi frizzichi passati gli balenava a mente…
una mareggiata di occhiate sbieche.
Il guaio, mò, era che lo zio sto frizzico (che
ogni tanto lo sapevo che l’aveva sentito) non lo sentiva oramai da qualche
mese, e ferreo, stoico, statuario, non si moveva di una virgola... non muoveva
un rigo! Siccome gli avevo detto di seguire il frizzico, lui non scriveva mezza
parola se non sotto diretta dettatura (no dittatura... ma quasi) del frizzico. Era
uno ligio al dovere. Mi era pedissequo collo scrivere che non me l’era mai
stato nelle altre faccenduole della vita.
Un giorno, una sera, a Milano, si mangiava
alla trattoria, me lo disse proprio: A' Dì, ma se non frizzica più qua... cazz'
ding da fa? (cazzo devo fare?).
Io ero preoccupato: dico, zì, aspetta.
Quando ti senti, che lo senti proprio a frizzicare, scrivi. “Sennò”, ricchiappò
lui... “desisti”… chiudemmo assieme. Esatto.
E amaramente si chiuse la cena.
Com’è come non è, eravamo al terzo giorno milanese,
io ero a fare alcune cose verso Lambrate che mi muovevo e spostavo le sedie, mi
sento suonare il telefono, rispondo… ecchi poteva essere: era lo zio:
Oh Dì… ohhh… c’avevi ragione tu
Che è zì
Eh… mi sta a frizzicà…
Bravo zì! Scrivi…
Dici che scrivo?
Certo che scrivi… devi scrive mo… muoviti
Eh, pare na parola… sto qua a mezzo al
centro di Milano… non c’ho manco ‘na penna…
Allora ‘spetta un secondo… prendi la
metro, vai a casa mia…
Oh Dì allora forse non m’hai capito… è un
frizzico forte… devo scrive proprio qua…
Fatti comprà ‘na penna a papà, un
quaderno…
No no, io devo fa mò… mi scappa proprio a
Dì… mò mi scrivo sotto
Eh però che cazzo zì e te l’avevo detto portatati qualcosa dietro…
pure un fazzoletto… Muoviti a trovà un buco su mettiti a scrive veloce..
Mò ci provo…
Dai muoviti… ciao zì
Ciao ciao…
E via di corsa. So per certo che entrò in
un bar si fece dare un foglio e una penna dal cameriere, era uno dei bar più
elegantoni del centro, non se n’era manco accorto quando entrava dove era
capitato… gli portarono tutto, lui in preda a sto frizzico immenso… arriva il
cameriere, toh carta e penna ma prima signore mi scusi prende un amaro, un
gelatino un caffè? Tutto tutto, pur di scrivere… prende e arriva tutto… pure
l’amaro il gelatino il caffè… Lui sudato come un pesce si ingolla tutto poi va
per mettere la penna su carta tirare le prime righe e… niet… Fine del frizzico.
Morale della storia: mai aspettare troppo:
se frizzica, scrivi. E mai ingozzarti nei locali dei ricconi. La scrittura non
è come il pensare, che a pancia piena s’è più bravi. A scrivere si scrive a
pancia vuota. Sennò muore il frizzico.
Dopo Milano, inaspettatamente, alle sette
di sera, io ero rimasto su a Milano per affari miei, lui era ritornato giù con
tutta la truppa, mi suona il telefono un'altra volta, era proprio lo zio ché
gli era venuto il frizzico.
Oh zì, dimmi tutto... quando ha success?
raccontami bene per filo per segno.
E mi raccontò... "Guardaaaa...
dinamoooo... ero lì colla mia Lena (la moglie, ndr)... lena in tutti i sensi...
e stavo là e pensavo, pensavo... ripensavo anche a Milano... titt' llà gent'...
la metropolina... e che ti dinga dic'... ho sentito proprio dentro di me,
dinamooo, ho sentito come una esplosione, un botto forte... e sì... ero il
frizzico... dinamoooo.... era il frizzico..."
"E tu?"
"Mi so' miss a scrive... che
duvava’fa?"
"Hai fatto benissimo… E quant' hai
scritto zì?"
"Ma guarda... due pagine..."
"Vabbone... dai... vabbone... mò
statti tranquillo"
"Scì scì... sto tranquillo"
"Ciao zì, bravo eh... bravo..."
"Grazie dinamo grazie".
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