Diario nulla estivo, 2


Una foto semi-rimbaudiana di Michail Bulgakov



Una delle letture più acrobatiche che ho fatto quest'anno è stata la biografia russa di Bulgakov ad opera della sua maggiore studiosa Marietta Čudakova (Odoya editore - traduzione di Claudia Zonghetti). Di mole non troppo maneggevole, l'ho letta con gusto, finanche in qualche parte con dolore, quel dolore che spesso mi arriva evocando a mente a mente le suggestioni della Russia, specie quella del primo regime. 
Ho appreso che Bulgakov amava giocare a biliardo e a carte (musica!); amava fare il farfallino con le donne, arrivando a dire alla prima moglie che avrebbe fatto finta di non conoscerla se fosse apparsa nel corso di un suo fedifrago appuntamento d'amore; andava spesso pure al casinò (doppia musica!), talvolta svegliandosi di soprassalto nel cuore della notte fulminato da qualche ispirazione cabalistica, e tutto per risollevare una disastrosa situazione economica famigliare e non dover ricorrere un giorno sì e l'altro pure al monte dei pegni; si infilava come un gatto lesto in ogni circolo letterario, particolarmente nel primo periodo del suo arrivo a Mosca, ma anche dopo, scemando via via con la tortura a distanza che gli riservò il regime staliniano. Beveva vino, pochissima o niente vodka.  
Era anche uno di provincia, rispetto ai moscoviti, e non faceva nulla per nascondere le sue attitudini all'originalità che assieme alla sua poetica inattuale gli valsero la bollatura (o bollitura?) di anti-comunista, filo-borghese. 
Così, nonostante lo pigliassero tutti a campagnolo (come se Kiev fosse Viterbo), si legava al collo il suo papillon che moltissimi suoi sodali moscoviti consideravano di pessimo gusto e se ne andava a giro, per strada, alle prove a teatro, nei circolini della cultura; e si narra che si fece arrivare una pelliccia costosissima da non mi ricordo più dove e ci girava indisturbato nella gelida Mosca, probabilmente invidiato da tutti.

Con l'avvento dei matrimoni a iosa ai quali sono stato anche solo per gioco invitato, ho pure io più maldestramente preso a nolo un papillon, azzurro, memore dei bei papillon che mi facevano indossare a forza nei primi anni di vita - anni in cui, a dar ragione alle foto che mi capitano per caso sottomano, e a dar torto alla vulgata dell'infanzia patria di felicità ecc ecc, quelli sono gli anni dove piangevo di più, sempre preda del batticuore e della malinconia (un bambino cacacazzo probabilmente che per giunta non aveva capito, o aveva capito fin troppo bene, di vivere allora in un tempo storico in cui si aveva poco più di uno scatto fotografico per essere felici).
E pure io ho girato con questo papillon azzurro al collo tra i tavoli e in mezzo al popolo, ignorato naturalmente da tutti, e mi sono fatto scattare una foto con la sigaretta in bocca e un sorriso turbans, come quella che vedete sopra. Ne è venuta fuori però uno scatto ridicolo, uno scatto dei miei e ho detto vabbè lasciamo perdere. 
Ad ogni modo, mi scappa proprio di concludere e siccome io non sono mai stato un eccentrico del vestire, un originale, credo sia stato questo passo di voler imitare un originale, nel qual caso il grande Bulgakov (grande scrittore, no modello Armani), a rovinare la mia corsa verso la moda e le sue luci e niente tanto vale appendere sin d'ora il papillon al chiodo, no al collo, e della pelliccia non ne parliamo neanche.
D'altronde poi io sul vestire devo dire che sì mi piace vestire (ché nudi nudi è pure reato andare in giro)... mi piace la camicia, il pantalone, la scarpa Bata, ma in fin dei conti penso che mi piace il più possibile non apparire per quello, magari mi piace proprio scomparire e in un certo qual senso mi viene da dar ragione ad Albinati il quale nel suo ultimo libro, La scuola cattolica, quello che con 1300 pagine ha vinto con il plauso e l'ammirazione (giustissima) di tutti, pure del sempre più rancoroso Abbate, il Premio Strega 2016, scrive proprio così, ché mi sembra una bella pagina:


 Altri elementi dell’abbigliamento pretesco li ho a lungo, più o meno consapevolmente, imitati e portati con me, addosso a me, per esempio il cappotto nero, tagliato dritto. Il rifiuto del colore, il sospetto nei confronti della varietà. E ancora una vaga aspirazione egualitaria, l’affratellamento forzato della divisa che libera dall’angosciosa necessità di comparare sé con sé, sé con gli altri, e di conseguenza scegliere, giudicare, soffrire sotto il martello del giudizio altrui. Naturalmente questa aspirazione ha un carattere difensivo, serve a proteggersi. Confesso di essere afflitto da una smania comparativa, ma non sulle cose serie, piuttosto sulle scemenze, le trivialità, un uomo che precipita senza fine nel gorgo dei dettagli, e può soffrire per un orlo dei pantaloni sbagliato di un centimetro, come gioisce per un reggiseno che aumenti di una taglia la dimensione del suo contenuto. L’unico modo per abolire questo turbamento incessante sarebbe non di moltiplicare all’infinito, come vogliono i libertari, le differenze, fino a rendere impossibile la comparazione tra individui, unici nella loro singolarità, quanto piuttosto di azzerarle, le differenze, e non pensarci più. Tolto un pensiero. Tanto per cominciare, vestiamoci tutti uguali. Un mondo senza giudizio e senza controlli perché il controllo è stato esercitato una volta per sempre, un automatismo la mattina nel vestirsi, senza nessun ragazzo o ragazza a soffrire perché la marca della propria maglietta non è quella giusta o a sentirsi superiore perché lo è. Tutti in divisa e via, non sarebbe bello? Una tuta, un caffettano, una tonaca, la guarnizione piumata di qualche cappello, magari. Per capire chi hai davanti, se è un soldato un sacerdote un pompiere un operaio un milionario o un galeotto. Oramai restano solo le zingare e i carabinieri a farsi riconoscere... 
Ehi, il mio non è un rimpianto, non rimpiango un bel nulla perché già ai miei tempi le divise non esistevano più, trasformate tutte indistintamente nell’unica divisa obbligatoria di maglietta e jeans, la camicia di forza del casual (dunque non erano affatto un segno di bieca uniformità, le divise, anzi, erano loro a marcare orgogliosamente la differenza...), e quando partii militare era appena stata fatta la riforma e potevamo andare in libera uscita vestiti come ci pareva, per cui se fino a qualche mese prima la città di Taranto la sera veniva invasa da migliaia di giovani marinai e avieri, insaccati nelle uniformi ma in qualche modo dignitosi nello squallore condiviso, affratellati da quell’obbligo ridicolo, quando venne il nostro turno (contingente 9/79), eravamo una marea di ragazzotti trucidi di tutt’Italia, ma così trucidi... così tristemente confusi e ancora più anonimi che se fossimo stati in uniforme.



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