Avventura pinocchiesca
Ero poco più di un giovanotto che scopriva allora le gioie e
le delizie dell'andare fuori la notte a incontrarsi colla gente, buscare dei
freddi e sgolarsi dietro alle sciocchezze del mondo, e in una di queste notti
qua, me lo ricordo come fosse mò, rincasai molto tardi, molto più tardi del
solito (per me allora). A casa il grande camino di quelli antichi che avevamo a
quei tempi e che erano alti, più alti delle persone di parecchi palmi di mano, era ancora mezzo acceso, col suo leggerissimo fumare - segno evidentemente che anche i miei famigli avevano fatto più tardi del solito -, e una fascina nuda
e cruda, pronta per immolarsi la mattina dopo, stava toma toma affianco alla
parete, silente come un morto. Le fascine, lo sanno tutti, c'hanno il vantaggio che ardono forte sin da subito, appena prendono, facendo una luce dentro le stanze, specie di notte, peggio dei fari dello stadio... per poi, ovviamente, consumarsi in fretta. Anche questo è il loro fascino. Siccome c'avevo un freddo della madonna e sapevo
che una volta salito sopra nella mia gelida camera non mi sarei mai più
riscaldato, presi sta bella fascina secca e la buttai senza tanti giri di pensieri o pentimenti (ché la mattina presto qualcuno avrebbe dovuto rifarsi il viaggio per prenderne un'altra nella lontana catasta) dentro la bocca del camino e a poco
a poco mi ci feci appresso, intirizzito com'ero, per scaldarmi alla meglio prima di salire in
ghiacciaia - so' uno freddoloso che ci posso fare? - e come era prevedibile per
tutti (ma forse non per me), mi addormentai, ché erano come minimo le quattr'e
mezza e m’era venuto il sonno quello traditore. Dormi dormi… dormi dormi… colla
fascina che più andava avanti più si rendeva fiammeggiante e viva, come avrete inevitabilmente capito già da un po', finii per pigliar foco, ma lentamente, senza quella madonna mia di furia che di solito c'hanno gli incendi, e mi incendiai specialmodo la coscia
sinistra, la più propinqua cioè alle fiamme. A quel torno, mia madre che non
prendeva ancora sogno per via che c'aveva sto figlio nottambuloso, sentendo
rumori dabbasso, scese per capire che stava succedendo, e riuscì a non perdersi la scena madre di me che
m'ero appena svegliato nell'orrore di quel focoso abbraccio. Insomma: nu fucarò.
Emesso qualche
comprensibile urlino femminile, subito mi fasciò me intontito di coperte
asciugamani e bancari (che sono le tovaglie, ricordo ai lettori - ennò quelli
che lavoreno in banca), e il foco addosso al sottoscritto, soffocato da così tante attenzioni materne, dopo un po’ si chetò pure lui, che voleva fare?, e
io potetti vedere (e sopra di tutto sentire) che la mia bella gamba sinistra, da
sempre ben tornita e slanciata alla bella maniera delle ballerine, ora stava tutta smagliata, colla
pelle andata a male e mangiata dal brucìo del camino, e così bello spellato e
ustionato mi sono poi tenuto codesta gamba (che la nascondo spesso all'amore), che non ci volli andare all'ospedale manco per sogno, non mi sembrava ce ne fosse bisogno ché il danno era bello che fatto... chissà poi che ustione era,
primo secondo terzo, mbò, anche se se era di quelle serie col cazzo che non ci vai
all’ospedale… ad ogni modo, dovendo ora raccontare questa cosa nella sua
interezza di verità, voglio dire che mi sarebbe piaciuto andare più in una
falegnameria a farmi aggiustare la gamba, ennò in un ospadale, o mi sarebbe
ancor di più piaciuto che mia madre soccorrente fosse una falegnama, e non una
sarta della sartoria industriale come ella era; così, in assenza di tutto
questo, me ne stetti là, piano piano, a rimarginare. Peccato solo per i
pantaloni, questo volevo pure dire, che mi pareva erano tanto belli. Ma forse pure no.